La stagione che va dall’ascesa del potere di Michail Gorbačëv, nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, alla definitiva dissoluzione dello Stato sovietico, nel dicembre del 1991, viene ritenuta sostanzialmente una rivoluzione pacifica, nella quale una profonda trasformazione degli assetti politici, economici e sociali avvenne senza spargimenti di sangue, con un protagonismo democratico delle masse, degli elementi riformisti delle classi dirigenti e della società civile dei Paesi del socialismo reale. La definizione del 1989 come “anno delle meraviglie” coniata da Thimoty Garton Ash identifica quel periodo storico, nel quale furono protagonisti “vecchi dissidenti, apparatchiks, leader religiosi, lavoratori e lavoratrici che rimasero pazientemente per strada, insistendo sul fatto che non se ne poteva più” (T. Garton Ash, 2008). Anche la rivoluzione romena, che sembrava aver preso una piega sanguinosa, si risolse con l’esecuzione dei coniugi Ceaucescu, dai forti vaori simbolici. I veri problemi – i conflitti etnici e nazionali che dilaniarono la ex Jugoslavia negli anni Novanta e diversi territori dell’ex Unione Sovietica fino ai giorni nostri – sarebbero iniziati solo dopo il fallimento del tentativo riformista della Perestrojka gorbacioviana e probabilmente proprio a causa dell’incompiutezza del tentativo di autoriforma sovietica.

In realtà vi sono alcuni episodi che gettano una luce oscura sul periodo gorbacioviano e che mostrano un’attitudine violenta e repressiva da parte sovietica verso i movimenti riformisti e di autodeterminazione nazionale all’interno delle repubbliche sovietiche. Si celebra in questi giorni il 28° anniversario del cosiddetto gennaio nero (Qara Yanvar), quando la città di Baku – all’epoca capitale della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian – venne invasa da più di 25.000 militari sovietici delle forze di sicurezza. Le truppe sovietiche, nella notte tra 19 e 20 gennaio 1990, repressero nel sangue le manifestazioni di protesta pacifica dei cittadini contro la decisione della vicina repubblica sovietica armena di annettere la regione azerbaigiana del Nagorno Karabakh e la posizione parziale e unilaterale delle autorità centrali di Mosca in questa questione. Il risultato di una vera e propria azione di guerra fu la morte di 146 cittadini sovietici e il ferimento di altri 744. Certamente il contesto politico e sociale dell’Azerbaigian di quel periodo era molto complesso, accanto alla dissidenza democratica e persino filo-gorbacioviana si intrecciava la questione nazionale. Non mancavano pertanto elementi nazionalisti e radicali, poiché il Fronte Popolare era un’organizzazione di massa dai contorni politici ancora indefiniti. Tuttavia la decisione di Gorbačëv di invadere Baku condusse, in una eterogenesi dei fini, a una completa delegittimazione non solo della sua leadership ma dell’Urss come sistema. Come scrive Thomas de Waal: “Il 20 gennaio 1990 Mosca essenzialmente perse l’Azerbaigian” (de Waal, 2013). Analizzando i caratteri idealtipici della legittimità politica Michael Rush nella Introduction to Political Sociology (1971) notava come, nel sistema sovietico, il malcontento politico esistesse ma fosse indirizzato verso i singoli dirigenti e non verso il sistema nel suo complesso, assegnando così all’Urss un forte grado di legittimità, anche se era un’esperienza totalitaria. Questo fu certamente vero per l’Azerbaigian, che fu una delle repubbliche più legate a Mosca e all’esperienza sovietica, fino al 20 gennaio 1990. L’eccidio rappresenta da allora un momento costitutivo dell’identità nazionale dello Stato azerbaigiano indipendente, ed è un caso particolarmente rilevante per comprendere i canali della legittimazione politica in uno degli Stati post-sovietici più dinamici dell’intero scacchiere eurasiatico. Questo e altri temi saranno discussi, il prossimo 24 gennaio, in un convegno presso il rettorato di Sapienza università di Roma che riunisce studiosi italiani e internazionali che si sono, negli ultimi anni, occupati di Azerbagian.

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