Un progetto di crowdfunding. Un inviato del Tg3, che dalla short bio si scopre insignito di premi importanti e significativi come quello dedicato alla memoria di Ilaria Alpi. Una sfida, che consiste non solo nel raccogliere fondi sufficienti per la stampa e la distribuzione di un volumone di 650 pagine, ma soprattutto nel trovare un numero sufficiente di persone disposte a impegnarsi per non dimenticare. Questo è “Afghanistan Missione incompiuta 2001-2015”, di Nico Piro, edito da Lantana e nelle librerie da venerdì scorso.

La prima parola-chiave per comprendere questo libro è esplicitata sin dal prologo: “guerra dimenticata”. È in questa categoria che l’ultimo conflitto in Afghanistan sta lentamente scivolando. “Una categoria, manco a dirlo, particolarmente popolata se si considera che mentre sfogliate le pagine di questo libro si combattono sul nostro pianeta all’incirca un centinaio di conflitti, ma bastano le dita di una mano per contare quelli che vengono alla mente della stragrande maggioranza delle persone” (p. 13). Ma non si tratta “solo” di un libro di denuncia, anche se gli sprechi, umani ed economici, che hanno caratterizzato quindici anni di impegno occidentale sul fronte afghano sono documentati con estrema perizia. È anche, forse soprattutto, un libro sull’Afghanistan, un Paese che per la sua collocazione geografica rappresenta al tempo stesso un obiettivo strategico e una storia abbastanza lontana da essere facilmente manipolata e, al momento giusto, dimenticata. Ma anche un Paese in grado di affascinare, con la sua natura inospitale e con la sua gente piena di risorse. E tutto quel che è troppo “raffinato”, difficile da spiegare in pochi secondi incentrati sulla notizia del giorno, e che Nico Piro ha però raccolto e archiviato nel corso dei suoi viaggi, finisce in questo libro. Particolari di primo acchitto privi d’importanza, o facilmente inseribili in cornici di senso completamente diverse da quelle che una lunga convivenza con quei luoghi e quei popoli rende possibile vedere.

“Gli afgani, soprattutto i più poveri, in campagna, indossano solo delle ciabatte di plastica, a volte di un indefinito giallastro, a volte colorato in maniera vivace, persino fucsia. Ciabatte incrociate in punta con il tallone libero, che arrivano chissà da qualche fabbrica pakistana dove vengono prodotte a migliaia, a getto continuo” (p. 27). Apparentemente un particolare che sa di povertà e globalizzazione, che magari rimanda il pensiero anche solo per un attimo a cosa abbia condotto gli afghani, per quanto poveri, a rinunciare a qualche tipo di calzatura tradizionale tratta da un immaginario à la Salgari per una volgarissima ciabatta di plastica, di quelle da mare. Ma c’è molto altro dietro. “Con quelle ciabatte gli afghani ci fanno di tutto, ci combattono persino e si arrampicano su crinali di roccia che farebbero paura a un alpinista. Metafora di uno scontro impari, tra guerriglia ed eserciti moderni, dove paradossalmente è favorito chi ha di meno e quindi si sposta più leggero e veloce anche se più scomodo.

Si tratta di un punto nodale, perché il primo errore che le forze dell’ISAF, International Security Assistance Force, e della OEF, Operation Enduring Freedom, le varie bandiere dietro le quali si sono schierate le ultime schiere di militari occidentali per fare opera di “peacekeeping” in Afghanistan, è non aver compreso che da particolari come questo si può comprendere una popolazione, e solo comprendendo la popolazione che si sta “tenendo in pace” la missione potrà avere successo. È un discorso molto ampio, che comprende dati oggettivi e climi che si può solo respirare, e raccontare.
Sul primo versante, il contrasto tra investimenti militari e civili più che ingenti e una ricostruzione del Paese che non riesce a evitare che il passo più importante del Paese, una specie di piccola frontiera tra due fette di Afghanistan, rimanga bloccato a causa della neve, rendendo impossibili i trasporti e causando centinaia di vittime. Sul secondo, un numero infinito di storie. Tra un tenente italiano che sfida i pericoli della provincia di Kunar per raggiungere un gruppo di anziani e parlare di cooperazione e una risposta che suona “Quelli che sono venuti prima di te, ci hanno promesso la strada ma non l’hanno mai costruita”, e che rappresenta il fallimento della politica di rotazione del comando nazionale delle forze di peacekeeping ma più in generale dell’approccio che ogni “invasore” ha avuto verso l’Afghanistan.
C’è la base americana di Bagram, che “se non fosse per l’assenza di finestre, se non fosse che fuori al posto dell’asfalto ci sono l’onnipresente ghiaia, il fango, la polvere […] potrebbe essere in una qualunque base militare nel cuore d’America”, dal mobilio al menu, dalle enormi palestre ai televisori sempre accesi. E la sagoma che nell’oscurità incrocia l’autore e il suo collega trascinare la pesante cassa col materiale tecnico, appena sbarcata da un Black Hawk e destinata a raggiungere un commando operativo che risulterà irraggiungibile, e li guarda “perplesso come se fossimo agenti di commercio in giro per la valle del Pech a vendere un Folletto” (p. 214).
C’è il fermo a un posto di blocco da parte di militari francesi che non possono riconoscere, sulla Toyota Corolla bianca stracarica che li ospita, i due giornalisti occidentali, e non esitano a puntare contro di loro i propri fucili d’assalto, rendendo evidente a posteriori “il cortocircuito finale tra i soldati venuti a proteggere la popolazione locale di cui però avevano paura, e gli afghani ce rischiavano di morire a opera di chi doveva proteggerli” (p. 392). Ma c’è anche l’illuminazione che coglie il cooperante australiano che “capito che gli occidentali vivevano in un mondo parallelo che poco aveva a che fare con il Paese reale, un giorno del 2007 decide di uscire in strada con la tavola da skateboard sotto il braccio” (p. 419), e riesce a farne un punto di contatto con gli afghani più giovani, senza distinzione di sesso e di classe sociale.

È l’insieme di queste sensazioni, delle emozioni provate poco dopo aver posato la telecamera – perché “in servizio” la paura deve essere messa da parte, come la pietà e la meraviglia, ma tutte tornano agli occhi e al cuore almeno nel viaggio di ritorno – a consentire di comprendere, molto al di là dell’apparato di dati e fonti pur impressionante, cosa sia l’Afghanistan. E perché la missione non possa che dirsi incompiuta, su un piano che riguarda non tanto il possibile ristabilirsi di astratti equilibri geopolitici, quanto una speranza di pace e di condivisione della struggente bellezza e della feroce forza narrativa che i luoghi che Nico Piro ha vissuto più che attraversato.

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