Il giornalismo è morto? No, ma non si sente bene. E’ naturale che di fronte a mutamenti epocali come quelli indotti dalla globalizzazione e dallo sviluppo tecnologico si provi un senso di impotente inadeguatezza. Soprattutto quando si appartiene a un categoria con un passato glorioso e un presente precario, appesantito da una configurazione organizzativa e un atteggiamento mentale, diciamolo, che spesso è sembrato più quello di una casta. Arroccarsi a difesa di una struttura  che è ormai un guscio vuoto non serve, anzi, rischia di allungare l’agonia e, quel che è peggio, impedisce di cercare soluzioni adeguate. Meglio sarebbe applicare all’informazione il postulato fondamentale di Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
Nel suo intervento in occasione de “Comunicazione incontra stakeholder e parti sociali”, il presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, Enzo Iacopino, ha lanciato un j’accuse all’istituzione universitaria, rea, a suo dire, di sfornare “gente che non sa parlare e scrivere in italiano” e di “proporre modelli astratti di giornalismo, tutti incentrati su una preparazione soltanto teorica”.
Alla prima obiezione ha risposto efficacemente la professoressa Maria Concetta Pitrone ricordando che l’alfabetizzazione non è compito dell’Università. La seconda questione è più insidiosa perché, almeno apparentemente, sfrutta le armi del buonsenso e della concretezza.
Ma facciamo un passo indietro e proviamo a descrivere sinteticamente il quadro in cui si svolge oggi il nobile mestiere del giornalista. La principale istituzione dei professionisti dell’informazione è proprio l’Ordine Nazionale, al quale è obbligatorio essere iscritti per esercitare, pena la denuncia (anche se ormai in disuso) per “esercizio abusivo della professione”. Ebbene, l’Ordine e le sue regole sono tuttora incardinati in una legge del 1963 (!) anno nel quale la televisione, per citare un media sopravvissuto a mille cambiamenti, era soltanto il primo canale della Rai. Se pensiamo che all’Ordine Nazionale è demandato il compito di certificare ciò che è giornalismo e formare le nuove leve si avverte chiaramente lo iato fra la realtà e le regole che dovrebbero governarla. Quanto all’istruzione, poi, che dire del fatto che, sempre in base alla legge n. 69/1963, per sostenere l’esame da professionista basta avere la licenza media inferiore (a meno che non si reputi sostitutivo di un diploma o di una laurea il colloquio di “cultura generale” previsto dall’attuale ordinamento).
Un ritardo culturale, prima ancora che legislativo, che ha pesato gravemente sulla crisi di identità che il giornalismo sta attraversando, specie in Italia. La rete e il digitale infatti, hanno stravolto non soltanto l’approccio “sacerdotale” alla notizia che ora arriva da innumerevoli fonti, ma hanno radicalmente mutato processi produttivi, assetti redazionali, figure professionali e, in ultima istanza, rovesciato la piramide in cima alla quale, ora ci sono i cittadini/utenti e non più i giornalisti. Un esempio? Tutte le immagini degli attentati del 13 novembre scorso a Parigi trasmesse dai telegiornali del mondo intero, erano realizzate con smartphone o tablet di privati cittadini.
Se l’Ordine in prima istanza, e tutte le istituzioni del giornalismo, avessero riflettuto di più e meglio, magari proprio con quell’approccio teorico (che significa ricerca) tanto disprezzato dal presidente Iacopino, su cambiamenti che si stavano delineando, probabilmente a quest’ora non avremmo risolto la crisi, ma almeno individuato un percorso di trasformazione e di rigenerazione che ci aiuterebbe a contrastare gli effetti della crisi e a invertire la tendenza al declino.

Il giornalismo e i giornalisti hanno senso soltanto se la Nazione ne riconosce e ne valorizza la insostituibile valenza sociale. Se, in altre parole, fanno vivere e materializzano quotidianamente i principi dell’articolo 21 della Costituzione. Ben vengano allora i percorsi disegnati dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale de La Sapienza. Poniamoci se mai il problema di come arricchirli di esperienze, di come confrontarsi con le loro teorizzazioni, di come sollecitarne il potenziale di ricerca e innovazione. “Nessun uomo è un isola” poetava  John Done, tantomeno un giornalista.

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