A osservare l’attuale panorama giornalistico italiano non possono che saltare agli occhi diversi tipi di asimmetria. A tutti i livelli ai quali il sistema dell’informazione può essere ancorato appaiono delle discrepanze, a volte piuttosto vigorose, tra ciò che si fa e ciò che si può/potrebbe/vorrebbe fare, tra ciò che si ritiene eticamente giusto e ciò che si ritiene doveroso fare, tra i fattori che meriterebbero attenzione, investimenti, riflessioni e approfondimenti, e quelli che poi materialmente ricevono tali attenzioni, investimenti ecc.

In occasione della nona edizione dell’International Journalism Festival, abbiamo potuto osservare che tali peculiari asimmetrie (che potremmo definire “incoerenze”, ma non intendiamo farlo, e spiegheremo perché) riguardano anche branche dell’informazione che, sulla base della storica (e forse superata, come già anni fa scriveva Ferruccio De Bortoli) separazione in generi giornalistici, sono inevitabilmente da considerare come sottogeneri, o più semplicemente nicchie; delle nicchie, tuttavia, la cui ricaduta in termini di interesse del cittadino è probabilmente comparabile a quella dei generi giornalistici “con la G maiuscola”, in primis ovviamente la politica alla quale sono strettamente correlati.

Nello specifico, la giornata di ieri presentava diversi panel incentrati sulle problematiche dell’informazione ambientale, e tra i diversi spunti emersi nel corso degli interventi e del dibattito, ci hanno colpito, come detto, alcune asimmetrie che sono state puntualmente messe in luce (potremmo dire addirittura “denunciate”).

Chi è il giornalista competente? La prima riguarda la competenza del giornalista chiamato a informare il pubblico dei cittadini in materia di ambiente: una competenza che non può che essere composita. Chi è il giornalista ambientale competente? E’ quello che padroneggia la parte delle hard sciences, che rappresenta per certi versi l’ossatura della problematica legata all’ambiente; è quello che padroneggia anche lo stato dell’arte, ovvero la cornice politica, economica e sociale che circonda le problematiche di stampo ambientale; è quello che verifica le notizie, le sue fonti, possibilmente andando di persona, per esempio sul luogo di una contaminazione ambientale; è quello che è in grado di restituire in maniera rigorosamente corretta e nel contempo fruibile tali informazioni al cittadino. Insomma, una competenza estremamente ampia e sfaccettata.

Uno dei nodi più importanti di tale informazione (e, come vedremo, non solo di questa) risiede proprio nel rapporto col cittadino: questo giornalismo, nei fatti, non si “limita” a informare, ma si propone in qualche modo di sensibilizzare, proprio perché le tematiche trattate sono intrinsecamente correlate con l’interesse della collettività, e di pari passo col progresso (tecnologico, industriale, sociale, culturale) della società esse evolvono e producono nuove problematiche. Proprio da questo, inoltre, si crea un’altra asimmetria: quella che intercorre tra un atteggiamento eticamente e deontologicamente corretto (informare e sensibilizzare attraverso la ricerca della verità, l’accuracy, la fairness e l’obiettività), e il rischio di una propensione alla partigianeria che trasforma pur legittime opinioni in asserti scientifici, parti in totali, e di fatto la sensibilizzazione nell’indottrinamento.

Una terza asimmetria, a nostro avviso particolarmente significativa, si riscontra nella diffidenza verso l’informazione mainstream (quella, per intenderci, offerta dai grandi quotidiani, dai grandi telegiornali, dai principali programmi di approfondimento radiofonico e televisivo, dagli online newsmedia legati alle principali testate, dalle grandi agenzie di stampa), incrociata con una generica doléance per il fatto di non riuscire ad avere accesso, riguardo a queste tematiche, proprio a quell’informazione mainstream della quale si diffida. Quello che, colloquializzando il dibattito pubblico, potremmo riassumere nel ricorrente adagio “Di queste cose nessuno ne parla”.

Le regole del mainstream In parallelo (altra asimmetria), emerge come tali tematiche raggiungano poi nei fatti i media mainstream, ma raramente per via della loro significatività intrinseca per ogni comunità: a “fare notizia” risultano piuttosto gli eventi connessi con la problematica ambientale. Così, se c’è un problema di natura ambientale che riguarda una storia di vita particolarmente toccante, o rischia di minacciare un sito turistico, o implica un coinvolgimento giudiziario per qualche amministratore (il tutto in Italia), le grandi testate mainstream possono spostarvi il loro riflettore; se c’è un enorme summit mondiale che tratta di queste tematiche, dall’Italia per conto dei media mainstream partiranno solo pochi giornalisti freelance, sui quali pende lo storico dubbio (con relativa asimmetria) se siano ipercompetenti in materie ambientali e, come tali, da considerare “esperti” prestati al giornalismo (del quale potrebbero non padroneggiare la professionalità), o al contrario giornalisti collaboratori freelance rimasti con il proverbiale “cerino in mano” (carenti di conseguenza nella competenza sulla materia specifica).

Infine, l’ultima tra le tante asimmetrie, che fa da sfondo comune a tutte queste tematiche (e non solo), riguarda la problematica degli investimenti economici che il sistema giornalistico riserva alla “nicchia”. L’asimmetria risiede nel concetto stesso di “nicchia”: perché un argomento è o diventa “di nicchia” per il sistema dell’informazione? Generalmente, questo avviene perché poche persone sono disposte ad appassionarsi a una tematica (piccola o grande che sia) e/o perché tale tematica è difficilmente fruibile da un pubblico ampio e/o perché tale tematica è difficile anche per il giornalista chiamato ad analizzarla e/o perché tale tematica interessa un pubblico ristretto; tutto questo per limitarci a motivazioni, diciamo così, alla luce del sole.

Così, i mainstream newsmedia, sia che competano in un sistema market oriented, sia che portino avanti valori specifici come in un modello advocacy (per riprendere due dei modelli proposti dallo studioso statunitense Michael Schudson), possono essere maggiormente interessati a notizie che garantiscano una ampia risposta dal pubblico, o piuttosto che rafforzino una determinata visione del mondo e della società. In parallelo (o piuttosto, ancora una volta, in asimmetria), le piccole realtà di nicchia appartenenti al mondo dell’informazione sono chiamate a trovare forme specifiche di finanziamento, che permettano di garantire la professionalità del servizio offerto al pubblico interessato, per quanto piccolo esso sia.

Le asimmetrie alla prova della rivoluzione dei media Fin qui, potremmo essere tentati (forse un po’ cinicamente) di concludere: nulla quaestio. Più che altro, tale schema non appare in alcun modo diverso da quello che ha caratterizzato il sistema dell’informazione, italiano e non solo, negli ultimi decenni: a decidere le strategie dei media mainstream, sia dal punto di vista della notiziabilità che da quello strettamente correlato degli investimenti economici, sono gli interessi dei finanziatori. Finanziatori che possono essere da un lato quegli editori impuri che non hanno l’editoria come principale mission del loro progetto economico-finanziario (vale a dire la quasi totalità degli editori italiani), dall’altro lato il pubblico dei cittadini, che attraverso il loro acquisto, il loro ascolto (televisivo o radiofonico) e il ritorno in termini di introiti pubblicitari, orientano la notiziabilità sulla base di ciò che dimostrano di voler fruire maggiormente.

Proprio per questo motivo, a nostro avviso, è più opportuno parlare (almeno allo stato attuale delle cose) di asimmetrie e non di incoerenze (o più brutalmente di errori): anche se tra le più particolari (ed eticamente delicate), l’industria dei media è soggetta come altre a determinate leggi di mercato e a un tornaconto di stampo economico (e, in parallelo, anche i giornalisti sono lavoratori, che si preoccupano dei loro emolumenti). E in quest’ottica, per certi versi è strutturale l’esclusione delle nicchie dal mainstream: come definire meglio il mainstream, infatti, se non proprio attraverso la maggiore attenzione riservata al grande pubblico rispetto alle nicchie?

Tuttavia, allo stato attuale delle cose emergono in maniera prepotente due fattori, che non possono che impattare sulla trattazione delle tematiche di nicchia. Uno è di natura più generale, e rappresenta il contesto economico del sistema dell’informazione; l’altro è specifico sulle tematiche “di nicchia” che stiamo affrontando nella nostra riflessione.

Il primo di questi fattori parte ovviamente dall’architettura stessa dell’informazione, che nel corso degli ultimi anni è stata profondamente sconvolta dall’evoluzione della tecnologia a disposizione del giornalista e, soprattutto, del cittadino suo fruitore. Tra le infinite evoluzioni messe in luce dai ricercatori di tutto il mondo, ai fini della riflessione che stiamo proponendo è interessante sottolineare in questa sede proprio quella di natura economica. Ovvero: nel momento in cui sempre più cittadini sono in grado di accedere all’informazione in maniera immediata e gratuita, come si può ottenere di essere pagati per informare? Nonché, e forse soprattutto, pagati precisamente per fare cosa?

A questo fine occorre richiamare la storica distinzione tra dare informazione e fare informazione (escludendo in questo frangente l’attuale evoluzione, ovvero il partecipare informazione). Allo stato attuale, con il livello elevatissimo di disintermediazione (offerto in particolare dalle piattaforme del web 2.0, ultima in ordine di tempo Periscope) tra produttori e fruitori degli eventi, appare quantomeno ottimistica la pretesa di essere pagati per fornire nozioni, informazioni, documenti disponibili a tutti online in maniera gratuita. Attenzione: non si tratta ovviamente di smettere di dare l’informazione, che rimane un dovere di un servizio pubblico in senso lato (ovvero il giornalismo di stampo liberale inteso come un servizio al pubblico) e in senso stretto (ovvero come servizio informativo offerto dal settore pubblico), ma molto più pragmaticamente, di non fondarsi su quell’aspetto per ottenere un ritorno economico.

Al giornalista è e sarà sempre più richiesto di offrire un valore aggiunto, che in realtà altro non è che il proprio contributo professionale: non diverge dai compiti classici di verifica, selezione, gerarchizzazione, contestualizzazione e interpretazione dei fatti (ovvero il fare informazione), ma non può che evolversi in un rafforzamento di questi elementi a discapito degli altri compiti storici, il reperimento, la presentazione e il commento, ormai ampiamente condivisi (nonché, come detto, disponibili gratuitamente). L’obiettivo è quello di offrire un servizio che il cittadino non è (per mezzi, per tempi e per competenze) in grado di fare da solo, ma che gli sia a tutti gli effetti utile (e da qui conseguono i doveri etico-deontologici del giornalista) e per il quale egli possa avere interesse a pagare.

Tematiche “di nicchia” ma interesse generale Veniamo ora al secondo fattore, e alla seconda domanda: come può declinarsi tale nuovo e necessario approccio della professionalità giornalistica nelle problematiche che abbiamo tratteggiato nei paragrafi precedenti? Si tratta di tematiche, come quella ambientale, che possono considerarsi senz’altro “di nicchia” (perché necessitano di un linguaggio e di una competenza non appannaggio del grande pubblico, perché spesso circoscritte, nelle loro singole specifiche, a un’area geografica limitata, ecc.), ma che a ciò associano un portato di interessi per i cittadini che può senz’altro configurarsi come mainstream: se infatti il singolo episodio, la singola criticità può essere di nicchia, la problematica che li racchiude rientra assolutamente nel novero degli interessi di ogni cittadino. Così, al dovere di informare si affianca il già citato proposito di sensibilizzare.

Proprio per questo, come emerso in maniera chiara nei panel riguardanti l’informazione ambientale, a svolgere il lavoro di inchiesta (che rappresenta il fulcro di una professione giornalistica che voglia offrire il suo valore aggiunto) sono spesso piccole realtà, a volte singoli giornalisti (o anche singoli cittadini). Questi produttori di informazione, mossi dall’intenzione di sensibilizzare la propria comunità, da un lato si scontrano con le difficoltà di stampo logistico-economico per svolgere tale lavoro (oltre a quella, già citata, di ottenere spazio e risonanza all’interno dell’informazione mainstream), dall’altro (nei casi riconducibili al citizen journalism) non offrono le garanzie di professionalità, indipendenza e correttezza deontologica teoricamente fornite dall’appartenenza alla categoria dei giornalisti di professione.

Inoltre, come detto, il sistema giornalistico mainstream, chiamato a intercettare il grande pubblico si approccia alla problematica “di nicchia” affrontandola attraverso i suoi risvolti mainstream, che spesso esulano dal nucleo della problematica, e spostano l’attenzione del fruitore su aspetti certo contingenti ma meno strutturali. A corollario di questo spostamento, si riscontrano spesso fenomeni riconducibili alla moda nel giornalismo: nel momento in cui una determinata tematica “di nicchia” entra nella notiziabilità mainstream (come detto spesso attraverso i suoi, pur importanti, elementi corollari piuttosto che per la sua intrinseca problematicità), a quel punto è facile per altri eventi simili ottenere una copertura giornalistica.

Un altro esempio a nostro avviso interessante ci viene offerto dall’attualità. Nel corso degli ultimi mesi, con una significativa impennata nei giorni scorsi, i principali newsmedia nazionali si sono concentrati su una serie di problematiche legate alle opere pubbliche, sia per quanto riguarda le cosiddette Grandi Opere (in particolare l’EXPO), sia per quanto riguarda l’ANAS, sia infine per i lavori di messa in sicurezza delle scuole. È interessante notare come, il 14 aprile, due quotidiani dall’impostazione piuttosto diversa («Il Tempo» e «Il Fatto Quotidiano») proponevano in prima pagina due titoli molto simili tra loro nella forma e nello spirito: rispettivamente “Qui crolla tutto” e “Viene giù tutto”, a significare l’unione tra eventi “fisici” (crolli nelle scuole, cedimenti nei viadotti, sospetti di fallace costruzione di tunnel) e contesti morali e giudiziari, oltre che economici (dimissioni di dirigenti, inchieste giudiziarie, sospetti di corruzione, in un contesto di crisi).

Colpisce in effetti l’improvvisa frequenza con la quale notizie di questo tipo raggiungono i media mainstream, sostituendosi a notizie di altro genere che ciclicamente rappresentano l’“emergenza del momento”, sulla base di un fattore detonante che spinge il giornalismo mainstream a occuparsene. Appare lecito chiedersi se realmente determinati eventi non accadessero in altri periodi, o se allora, in mancanza di un contesto favorevole all’accesso al grande pubblico, non fossero piuttosto stati gerarchizzati come non sufficientemente interessanti. In quest’ottica, è inoltre opportuno sottolineare ancora una volta come il nucleo (o i nuclei) di tale copertura giornalistica siano oltretutto legati alle notizie connesse con la problematica: non tanto approfondimenti sulle criticità della realizzazione e del controllo delle infrastrutture in Italia, ma le sue ricadute in termini di corruzione, di human interest, di interessi politici ed economici, di polemica politica e giudiziaria.

Quale giornalismo e quali media per quale tematica Ancora una volta, potremmo chiosare “nulla quaestio”, se non fosse che, asimmetricamente, è facile individuare tante piccole realtà giornalistiche nelle quali tali problematiche sono affrontate regolarmente, approfonditamente, allo scopo di offrire al cittadino un servizio di stampo giornalistico, che si scontra con la carenza di mezzi e strutture che invece le grandi testate potrebbero offrire, garantendo quindi sia la qualità dell’informazione che il compito di sensibilizzazione che argomenti come l’ambiente e le infrastrutture, o per fare altri esempi il giornalismo medico, l’informazione alimentare ecc., portano intrinsecamente con loro.

In altre parole, le nostre mamme e nonne avrebbero concluso che “chi ha il pane non ha i denti”: neanche a dirlo, un’altra asimmetria. Le cui conseguenze in termini di partecipazione della cittadinanza sono però tutt’altro che secondarie. Basti pensare a quanto vengano invocati inchieste e approfondimenti giornalistici quando ci si trova di fronte a emergenze (come per esempio le alluvioni a Genova e in Liguria, gli incendi nelle regioni più calde, fino ad arrivare al caso, quasi allegorico, della neve a Roma), salvo poi vederli scomparire nel corso dei mesi dalle principali testate mainstream, per poi riemergere con prepotenza quando uno o più eventi singoli fungono nuovamente da detonatore. Nel caso della problematica legata alle infrastrutture, il detonatore è probabilmente rappresentato da una compartecipazione tra le inchieste su EXPO, l’indagine sulle Grandi Opere e la conseguente polemica che ha condotto alle dimissioni l’ex Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi e alcuni crolli di strade e viadotti recentemente inaugurati: non a caso, tutti riconducibili a singoli eventi connessi con la problematica, che innescano una forma perpetua di running news, che difficilmente – a livello mainstream – si trasformano in continuing news (che consentirebbero un maggiore approfondimento e, soprattutto, l’auspicata sensibilizzazione).

Il perpetuo stato di emergenza nel giornalismo In alternativa, come al Festival del Giornalismo ha sottolineato Mihaela Gavrila a proposito delle questioni ambientali – ma con una significativa applicazione anche ad altre tematiche – si rimane in un perpetuo stato di crisi, che senz’altro “fa notizia” ma che non aiuta i cittadini, che non li sensibilizza, che non spinge amministratori e politici a fare il loro interesse, e che in una parola non li informa. Il perpetuo stato di crisi spinge i newsmedia a dare informazione, ma di fatto impedisce loro di fare informazione; inoltre, il tipo di tematiche, difficili ma necessarie per una grande fetta di cittadinanza, sono quelle in cui l’intermediazione giornalistica non può essere aggirata. L’ennesima asimmetria: sono gli eventi per i quali ogni cittadino avrebbe bisogno dei giornalisti, e sono quelli per i quali a livello mainstream i giornalisti in qualche modo si defilano, girando intorno al problema. È senz’altro giusto cercare e punire il colpevole di un crollo di un cavalcavia, dell’inquinamento di un fiume o dell’alluvione in un centro cittadino; è necessario raccontare la storia delle persone che si ammalano per via di esalazioni nocive, o in positivo l’eroismo di chi ha aiutato a spalare il fango. Il timore, però, è che questo si riduca nel suo minimo a dare un’informazione, e nel suo massimo alla sensibilizzazione, ma di stampo politico, economico e giudiziario, che è senz’altro parte del problema, ma che ne rappresenta inevitabilmente la valle. E che spinge motivatamente a chiedersi se questo sia il servizio che il giornalista è chiamato a fornire al cittadino.

Come uscire da questo circolo vizioso di asimmetrie? A nostro avviso, la soluzione è – banalmente ma non semplicisticamente – un circolo virtuoso di asimmetrie. Ovvero la presa di coscienza delle peculiarità, delle necessità, delle predisposizioni e delle potenzialità dei media mainstream da un lato, e delle piccole realtà di nicchia dall’altro: da un lato, quindi, il grande pubblico e la potenzialità di sensibilizzare e contestualizzare, mezzi maggiori e minore elasticità, dall’altro grande flessibilità, predisposizione all’approfondimento e alla presenza sul territorio, ma difficoltà a strutturarsi (nonché a difendersi da eventuali pressioni) e a individuare un modello economico funzionale e applicabile alle varie realtà.

Una volta presa coscienza di ciò che ciascuna delle parti in gioco può e non può fare, una volta presa coscienza, insomma, della strutturale asimmetria, è necessario che le parti collaborino. Che ognuno metta a disposizione dell’altro le proprie potenzialità, in modo che l’asimmetria diventi funzionale all’obiettivo finale di ogni newsmedia (piccolo o grande che sia): informare il proprio pubblico. L’alternativa è che, in un magma costante di potenzialità che emergono configgendo tra loro, e altre che al contrario scompaiono dal giorno all’indomani, su tematiche importanti e funzionali alla vita sociale dei cittadini ci si ritrovi a farsi dettare l’agenda da eventi drammatici, essendo del tutto sprovvisti (giornalisti come cittadini) dei mezzi per mettere realmente l’informazione al servizio di tutta la cittadinanza. Così com’è, per riprendere un adagio anglosassone e il relativo film, l’evento funesto appare la tragica coda che agita il cane.

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