Gli spaventosi e brutali attacchi terroristici che hanno sconvolto Parigi due volte in questo 2015 hanno imposto e stanno tuttora imponendo riflessioni, talvolta anche decisamente strutturali, riguardo numerosi aspetti della vita sociale e culturale europea. Nello specifico, come molti studiosi e analisti stanno mettendo in luce, giornalismo e comunicazione si trovano di fronte a un panorama che cambia in maniera piuttosto radicale, e sotto diversi punti di vista.

In primis, si va compiendo un percorso pluriennale, che già gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 avevano portato sotto gli occhi di tutti: i movimenti terroristici internazionali (e islamici in particolare) applicano e sfruttano le logiche dei media, sia nei termini della copertura mediatica che vogliono ottenere per le loro azioni, sia in quelli della propaganda verso i propri seguaci e verso l’esterno; inoltre, proprio con Daesh questa attenzione verso logiche “occidentali” viene portata a significativi livelli di professionismo. Non a caso, il numero in preparazione della rivista Comunicazionepuntodoc è dedicato proprio a queste problematiche, con due approfondimenti specifici sui fatti di Parigi affidati a due grandi professionisti dei media e del giornalismo.

Vi è poi un profondo cambiamento nel giornalismo dei Paesi occidentali, che vede messo strutturalmente in discussione il processo stesso di intermediazione. Come è già stato fatto brillantemente notare, molto della copertura giornalistica legata ai fatti di Parigi del 13 novembre 2015 è nato sulla rete, attraverso le piattaforme di social network, ma non solo: l’informazione non è solo stata data, ma è stata fatta. Il processo di intermediazione giornalistica prosegue nella sua “traversata nel deserto”, e proprio eventi di questa portata si ripromettono di fare da pietra miliare anche nel campo del giornalismo, e lasciano intravedere i prodromi di quello che probabilmente sarà un futuro modello ancora in divenire.

Vi è infine una prospettiva di stampo etico-filosofico, che è stata drammaticamente centrale nell’analisi dell’attacco a Charlie Hebdo di gennaio, ma che – com’è ovvio – non si è risolta da allora, ed è anzi spesso tornata al centro del dibattito pubblico in diverse occasioni nei mesi scorsi: la prospettiva legata alla libertà di espressione del pensiero e alla libertà di stampa. Il grido “Je Suis Charlie”, declinato nelle varie lingue, ha ribadito come per larga parte del mondo occidentale la libertà di dire ciò che si pensa e di pubblicarlo prescinda dal condividerlo: questa rivendicazione, infatti, era così potente proprio perché pochissimi realmente “erano Charlie” (ovvero condividevano sia quanto pubblicato dal settimanale che, soprattutto, la sua impostazione brutalmente irriverente), e la celebre citazione attribuita un po’ forzatamente a Voltaire (“Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”) ha fatto in qualche modo da leitmotiv nelle analisi successive all’attentato.

Tra le numerose e sfaccettate declinazioni che tale dibattito ha preso nel corso degli ultimi mesi, è interessante segnalare come la vigorosa e quasi unanime alzata di scudi in favore della libertà di espressione al grido di “Je Suis Charlie” sia diventata una sorta di “parola d’ordine” ogniqualvolta sale alla ribalta del dibattito pubblico una presa di posizione o un’affermazione controversa. Non si contano, sia a livello di dichiarazioni ufficiali che, soprattutto, nei dibattiti su forum, social network sites e commenti agli articoli dei principali online news media, i richiami a “Je Suis Charlie”: sia come rivedicazione di libertà d’espressione, sia di converso come polemica accusa di ipocrisia o doppiopesismo.

L’ultima declinazione in ordine di tempo si è avuta riguardo al titolo di prima pagina di Libero il giorno successivo agli attacchi di Parigi del 13 novembre. Sulla prima pagina del quotidiano campeggiava infatti un “Bastardi islamici” (ripetuto poi in intestazione alle pagine 2 e 3) che ha suscitato indignazione da più parti, e che porterà l’autore dell’editoriale, nonché direttore della testata, Maurizio Belpietro, a rispondere di tale scelta sia di fronte alla giustizia (è stato querelato per discriminazione per motivi religiosi) che di fronte all’Ordine dei Giornalisti (è partita una petizione online che ne richiede addirittura la radiazione dall’Albo dei giornalisti). In relazione a questo dibattito, ci sembra che emergano quattro punti interessanti e meritevoli di approfondimento.

  1. In primis, quella più basilare: la linea di difesa di Libero, espressa dallo stesso Belpietro in un tweet nel pomeriggio del 14 novembre, poi ampliata e circostanziata nel suo stesso editoriale del giorno successivo. In “Bastardi islamici”, afferma Belpietro, “islamici” rappresenta l’aggettivo che qualifica il sostantivo “bastardi”, ovvero figli illegittimi (con un rivendicato tono sprezzante in aggiunta). Il termine “bastardi” non rappresenterebbe quindi una generica offesa alle persone di confessione musulmana, ma un preciso richiamo, pur volutamente sprezzante, al fatto che vi sia un distinguo tra l’Islam e i terroristi che all’Islam si richiamano.
    Due gli aspetti interessanti da segnalare: il primo è che nel resto dell’editoriale del 14 novembre, come del resto nell’occhiello e nel sottotitolo, non vi è nessun approfondimento di questa “linea”, ovvero dell’accezione data al titolo; il secondo è che, nell’editoriale del 15 novembre, Belpietro stesso fa più volte esplicito riferimento alla diatriba sulla libertà di stampa e di espressione che ha seguito l’attentato a Charlie Hebdo, proprio nell’ottica di rimarcare i supposti, già citati, ipocrisia e doppiopesismo in chi si dice pronto a tutelare qualunque cosa venga espressa a mezzo stampa, ma che nei fatti si erge a paladino solo di alcune posizioni;
  2. vi è poi un riferimento necessario a quello che, sulla base della tripartizione proposta da Schudson (1978), è il modello cosiddetto market oriented, che consiste nel considerare il mercato del giornalismo a tutti gli effetti un mercato come gli altri, e quindi legare inscindibilmente le scelte giornalistiche al pubblico che è chiamato ad acquistare il prodotto-newsmedia (nello specifico, il quotidiano).
    Da più parti è stato sottolineato, a legittimazione della scelta effettuata, che ciò che Libero ha titolato corrisponde nello spirito a ciò che il suo lettorato abituale pensa o, comunque, che è come minimo disposto a tollerare: a parziale conferma di ciò possiamo fare riferimento al sondaggio lanciato dal sito dello stesso quotidiano (“Siete d’accordo con il titolo di Libero?”) che, pur strutturalmente privo di valenza scientifica, mostra un 78% di sì che corrisponde anche al tono dei commenti relativi agli articoli che trattano del tema. Tuttavia, come sottolineato in letteratura (e dallo stesso Schudson), il modello market è forse il più distante dall’ideale liberale del giornalista che contribuisce allo sviluppo di un’opinione pubblica cosciente e avvertita, anche più del modello advocacy che contempla una strutturale partigianeria: vincolarlo quindi al rispetto di un ideale giornalistico liberale appare quantomeno forzato;
  3. emerge inoltre in maniera significativa il già citato richiamo alla libertà di stampa e di espressione: non solo nelle parole di Belpietro (che comunque lo collega principalmente agli effetti deleteri di buonismo e politically correct, più che alla libertà di stampa e di espressione), ma anche, e forse soprattutto, in chi difende la sua scelta. Come potete, questo è il senso del messaggio, difendere le vignette di Charlie Hebdo e insorgere contro il titolo di Libero? Si tratta di due scelte volutamente provocatorie, che contemplano – in maniera più o meno esplicita – l’eventualità di offendere. Perché per una si invoca la libertà di espressione, per l’altra la repressione?
    La domanda è legittima ma non tiene conto di un importante aspetto, fondante il dibattito stesso sulla libertà di stampa e di espressione. Senza addentrarci in maniera specifica sugli aspetti giuridici, è necessario tuttavia sottolineare che le libertà di stampa e di espressione non corrispondono, né hanno mai corrisposto, alla deresponsabilizzazione dell’autore riguardo a ciò che egli afferma. La conquista democratica legata alle libertà di stampa e di espressione (che affondano le proprie radici nell’Areopagitica di Milton e nel saggio On Liberty di Mill) consiste innanzi tutto nella tutela del diritto ad avere ed esprimere un’opinione, nell’affermazione della stampa (inizialmente i libri, successivamente per estensione i giornali e poi l’informazione) come elemento fondamentale del corretto svolgimento della vita democratica di una comunità; ma contempla ovviamente anche le eventualità in cui di tali libertà si abusi e, questione vieppiù fondamentale in questo periodo, afferma che di tali abusi si debba rispondere. Di fronte alla legge, e non di fronte a un AK47: altro fondamento democratico;
  4. riguardo a questo punto, tuttavia, è necessario sottolineare un ulteriore aspetto, che si situa nel punto esatto in cui la libertà di stampa e quella di espressione mostrano una divergenza. Infatti, appare una differenza sostanziale nel momento in cui la dimensione etica ha il suo precipitato nel vissuto professionale: ovvero al livello della deontologia. Quest’ultima, infatti, impone limiti ben precisi, e specifici della singola professione. Nel contesto dell’ipotetico paragone tra il modo in cui vengono valutate le scelte di Libero e quelle di Charlie Hebdo, la domanda importante è semplice eppure non certo banale: di che professione stiamo parlando? La risposta più ovvia è: del giornalismo per Libero, e della satira (posto che possa definirsi una professione) per Charlie Hebdo. Come tale, Libero deve rispondere ai doveri deontologici del giornalismo, laddove Charlie Hebdo è tenuto a rispettare quelli molto più sfumati (o addirittura da considerarsi assenti) della satira.
    Questa riflessione è legittima ma non tiene conto di un aspetto fondamentale: la differenza tra Italia e Francia in termini di gestione del sistema dell’informazione e, in senso più lato, di cultura della stampa e del giornalismo. Se infatti non appaiono esservi dubbi sul fatto che Libero e il suo direttore siano tenuti al rispetto della deontologia giornalistica, una riflessione a parte merita Charlie Hebdo. Pur essendo una pubblicazione satirica, infatti, Charlie Hebdo ha sovente affrontato diverse questioni con approccio prettamente informativo, mantenendo lo spirito caustico nel taglio e nel piglio, ma con finalità riconducibili ai valori etici del giornalismo (in particolare il valore “supremo” della ricerca della verità); tale approccio può essere riscontrato anche – forse maggiormente – nell’altro grande settimanale satirico francese, Le Canard Enchaîné.
    Charlie Hebdo, Le Canard Enchaîné, fanno quindi informazione o satira? In Francia, tale limite non è così strutturale: ispirandoci a La Palice, si potrebbe dire che fanno informazione quando fanno informazione, e satira quando fanno satira. E se ciò che ha animato gli attentatori del gennaio 2015 sono state le vignette raffiguranti Maometto (la parte quindi satirica), è altresì importante segnalare che molte delle controversie nate in patria intorno al settimanale francese hanno riguardato gli articoli di informazione.
    Al contrario, in Italia, la strutturazione dell’Ordine dei Giornalisti, la subordinazione dell’esercizio della professione all’iscrizione a un albo, e successivamente al superamento di un esame di Stato, fa sì che il passaggio da satira a informazione appaia molto più delicato, sia nell’attività del singolo giornalista che nel contesto di una testata. Non a caso le esperienze di settimanali satirici in Italia hanno avuto una connotazione molto più definita: Il Male o Cuore avevano un’anima satirica e/o militante nettamente più accentuate rispetto a quella informativa, e così vale anche per Il Vernacoliere e Frigidaire, che pure includono in maniera più corposa articoli riconducibili agli stilemi del giornalismo.
    Il punto fondamentale è che in Italia la cultura del giornalismo liberale, come notato ripetutamente in letteratura, non può dirsi compiutamente acquisita. Un ibrido tra giornalismo e satira ha un peso diverso nel passaggio tra Francia e Italia, proprio perché il pubblico dei cittadini italiani non appare adeguatamente abituato, a livello culturale, a un giornalismo che faccia giornalismo e a una satira che faccia satira, dal momento che storicamente sia giornalismo che satira, all’occorrenza o come compito principale, fanno anche altro. Se questo non appare in alcun modo dirimente riguardo al comportamento tenuto da Libero, impone se non altro una riflessione riguardo a quello mostrato da Charlie Hebdo, soprattutto quando lo si erge a simbolo.
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