Da un sacco di tempo mi chiedevo perché fossi così attratto dai necrologi pubblicati nei quotidiani. Avete presente gli annunci, le condoglianze, per tutte quelle persone che, come si suol dire, passano a miglior vita. Sulla miglior vita continuo ad avere qualche dubbio, nonostante la perdurante infelicità legata all’attualità (ma il peggio non è mai morto, suvvia), invece non ho più dubbi, o quasi, sul motivo della mio tragico interesse. Per un onesto artigiano della carta stampata la lettura dei necrologi rappresenta una sorta di conto alla rovescia del numero dei lettori. E’ un appello (quello scolastico, non politico) al contrario: è il triste, quotidiano elenco degli assenti definitivi alla preghiera mattutina di hegeliana memoria. Preghiere ormai per pochi intimi. E tutte quelle date a proposito di appollottolamenti dell’ultima copia stampata, insomma, tutte quelle profezie,vere o presunte, di sciagure che per tanto tempo abbiamo accolto con sorrisi sarcastici, ora ci sembrano una straordinaria ventata di ottimismo.
Sappiamo bene che parlare genericamente di fine dei giornali cartacei ha poco senso, che le redazioni si stanno (o si starebbero) trasformando in “news center”, ovvero in luoghi dove l’informazione si declina nei mezzi più adatti alla bisogna, ma…
Fermiamoci un attimo: siamo proprio sicuri che il quotidiano cartaceo sia una delle tante possibili opzioni attraverso le quali sia possibile diffondere informazioni? E’ solo questo, o il quotidiano è anche, anzi soprattutto, l’archetipo, il format base del giornalismo? La crisi della stampa di informazione è una crisi solo del mezzo, del device utilizzato, o è anche, o soprattutto, il segno della crisi dell’informazione quotidiana? Per chi è il necrologio?
Abbagliati dalle magnifiche sorti progressive del bel mondo della Rete, quale naturale approdo di qualunque attività umana, abbiamo visto nella morte del quotidiano la semplice e inevitabile trasformazione di un medium in un altro secondo le ormai un po’ stantie teorie del “mezzo che non mangia mezzo”. Ma c’è dell’altro.
Fino a un po’ di tempo fa, non molto, in un quotidiano, cercavo (e magari non sempre trovavo) le dieci cose che mi consentivano di “stare al mondo”. Trovavo, più o meno, quello che mi serviva per affrontare la giornata metropolitana, ma anche la discussione al bar o in ascensore. E magari passavo anche del tempo, facendomi gli affari degli altri: vip, calciatori, politici, briganti, leggendo storie, racconti, narrazioni.
Il quotidiano, anche per interposta persona e/o mezzo, mi dava il senso della giornata, scandita, anche qui più o meno, secondo il ritmo delle 24 ore e mi metteva in contatto con l’altro, con lo sconosciuto, con l’ignoto.
Trovo ancora queste cose al tempo dell’informazione digitale? E, soprattutto: le cerco? Il vero problema è che oggi non solo rifiutiamo il concetto stesso di mediazione, ma non cerchiamo più “novità”, ma conferme. Nell’esplosione di individualismi e protagonismi dal basso, si è persa molta curiosità per l’altro, per l’ignoto, cercando la conferma di valori condivisi in comunità, meglio ancora tribù, sempre più ridotte.
Il problema non è la carta, o meglio non è solo la carta. Il problema è lo stesso concetto primario di giornalismo: la curiosità per la novità, per la differenza.
Emblematico è il caso di facebook , secondo molti nuovo naturale approdo del giornalismo professionale: approdo suggestivo, ma sostanzialmente suicida. Il social è la cassa di risonanza di valori condivisi e il giornalismo da social è il possibile carburante per un’informazione di nicchia e autoreferenziale.
Ha quindi molte ragioni Jeff Jarvis nel sostenere che il giornalismo di massa è morto e che debba completamente reinventarsi. Ben venga un giornalismo “sociale” pronto ad ascoltare gli interessi dei lettori anziché immaginarli. Ma un giornalismo di servizio potrà contare, verosimilmente, su comunità territorialmente localizzate (e queste è già un paradosso visto che pensavamo di essere oltre il senso del luogo) o comunque piuttosto omogenee, con tutti i problemi legati all’autoreferenzialità e alle antiche questioni di economicità del sistema.
Un giornalismo, quindi, che affidi alla comunità anche il ruolo di fonte primaria. Un giornalismo che riparta da zero, dalle definizioni. Come sostiene Tedeschini Lalli, il giornalismo dovrà essere: “Quello che io chiamo ‘il giornalismo che conta’, una piccolissima percentuale del resto del giornalismo (anche buono e buonissimo) che è tuttavia fungibile, può essere cioè prodotto da soggetti e organizzazioni che col giornalismo non c’entrano nulla.”
Tutto giusto, ma già oggi le persone hanno sostituito il giornalismo (e non i giornalisti) con altre forme di intrattenimento. Non si informano, ma si intrattengono su questioni che poco hanno a che fare con una vecchia (?) idea di giornalismo, legata, almeno sulla carta, agli interessi dei molti e non dei pochi, della società piuttosto che degli individui. Molte nefandezze intellettuali sono state e continuano ad essere commesse, sovrapponendo l’ipotetico interesse collettivo a quello particolare della testa e/o del giornalista. Ma la difficoltà, nonostante la rete e i social è riuscire a tenere insieme i troppi interessi particolari degli individui, che proprio nei social trovano terreno fertile. Scriviamo o urliamo tutti, ma nessuno legge o ascolta.
Il giornalismo professionale aveva, e forse ha ancora, una sua funzione sociale: informare sulle cose scomode, anche irritanti. Riuscire a dire cose che nessun’altro può, o ha voglia, di raccontare. L’esatto contrario del logica del “like”.
Stiamo buttando, al solito, acqua sporca e bambino. Proverei a ragionare sulla culla, potrebbe tornare ancora utile.