È un tranquillo venerdì mattina d’inizio primavera al Coris. Non ho lezione, oggi. A portarmi in facoltà è un seminario. Il titolo dice già tutto: Comunicazione incontra stakeholder e parti sociali. Una chance di confronto fra due realtà, quella accademica e quella del lavoro, troppo spesso percepite come distanti fra loro. Un’opportunità anche per noi studenti, interessati a sapere che cosa si aspetti da noi quel mondo che ci aspetta lì, fuori dall’università.

Tanti i contributi che si susseguono, portando sensibilità ed esperienze diverse. L’intervento che più mi colpisce però è quello del presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino. «Non vorrei sembrare scortese, ma…», esordisce. È il sottile alito di vento che precede la tempesta. Infatti poi la diga cede e Iacopino è un fiume in piena. Com’è mai possibile che i professori insegnino giornalismo? Per carità, non è il loro mestiere: sono chiusi in un mondo fuori dalla realtà e non hanno la benché minima idea dello stato attuale dell’informazione, in cui ormai nemmeno le redazioni esistono più. E allora chi dovrebbe farlo, al posto dei professori? Ovviamente i giornalisti, peccato però che l’università non li chiami. Gli studenti non meritano miglior sorte, anzi: tanti non dovrebbero neppure laurearsi, a malapena sanno scrivere; e quelli che ci riescono, comunque, hanno un bagaglio del tutto privo di pratica. È un caterpillar, Iacopino. Lancia strali a raffica. E meno male che voleva andarci piano.

Le cose però non stanno proprio così e Iacopino dovrebbe saperlo. Se non altro perché proprio alla Sapienza insegnano giornalisti come Michele Mirabella, Francesco Giorgino e Paolo Petrecca, come gli viene fatto notare. Affermare che la pratica sia assente, poi, non corrisponde a verità. Nei limiti del possibile, la chance di farne c’è. Ad esempio io stesso ne ho avuto la possibilità partecipando al progetto “Finestra sull’Europa” in collaborazione col free-press Metro. Senza dimenticare, poi, l’opportunità costituita dagli stage. La pratica, per l’appunto. Proprio qui, in questa facoltà, mi è stato insegnato che non c’è nulla di più pratico di una buona teoria. Credo che sia veramente così, come penso che molti dei problemi dell’informazione nostrana siano dovuti proprio a questo: alla scarsezza di basi teoriche. Pratica e teoria devono camminare di pari passo, altrimenti il giornalista diventa un mero strumento succube del flusso delle notizie, un ingranaggio senza coscienza fondamentalmente inutile per la società. E allora sì che avrebbe ragione chi afferma che la figura del giornalista ha perso senso.

Evidentemente – fermo restando che il primo a volere la pratica è proprio lo studente – il licenziamento in tronco della teoria non è la strada. E la stessa affermazione di un primato del giornalista sul professore nel percorso d’iniziazione al giornalismo sa di arroccamento, di difesa d’ufficio della figura del giornalista-sacerdote che non vuole accettare il fatto che se si è desacralizzata la società, si è desacralizzato anche il giornalismo. Verrebbe quasi da chiedersi se gli autoreferenziali fuori dal mondo, più che quelli stanno dentro le aule universitarie (per inciso, che le redazioni ormai sono delle cattedrali vuote lo sapevamo già), paradossalmente siano proprio quelli che il mondo dovrebbero narrarlo, troppo presi dalla frenesia di raccontarlo per riflettere su come lo raccontano e come raccontarlo?

In chiusura, una nota personale. A fine convegno mi alzo perplesso. L’intervento di Iacopino mi ha colpito soprattutto perché così non si svilisce solo la mia facoltà, ma le stesse scelte di vita mie e dei miei colleghi – tutti, tanto i bravi quanto i meno bravi. Sommessamente ricordo che fra di essi potrebbero esserci alcuni dei professionisti di domani. E un simile trattamento, sinceramente, non se lo meritano.

Condividi dove vuoi: