Per trovare un attacco terroristico di impatto comparabile a quelli di Parigi, in Occidente, bisogna tornare indietro di dieci anni, agli attentati di Londra del 2005. Youtube e Facebook avevano pochi mesi. Twitter era ancora in embrione. A tenere aggiornato il pubblico sugli attacchi e sulla loro rivendicazione erano i grandi siti di informazione: BBC, Al Jazeera, Der Spiegel.
Gli attacchi del 13 novembre sono invece il primo evento del genere ad avere una vera e propria “controparte digitale”, che ha influenzato come l’Europa e il mondo hanno vissuto quei momenti: da un lato i macabri tweet esultanti dell’ISIS e dei suoi sostenitori; dall’altro, l’inquietante svolgersi degli eventi, minuto per minuto, mediante la cronaca di agenzie, utenti e – nel peggiore dei casi – presenti.
L’attività online dell’ISIS – lo sappiamo – è forte, tanto quanto quella degli utenti “ordinari”. Paradossalmente, la mentalità terrorista rivela un’ambivalenza: cellule che in concreto operano clandestinamente, non possono fare a meno di manifestare la propria presenza sulla rete, più o meno apertamente. Se così facendo i jihadisti amplificano esponenzialmente la loro potenza retorica, creano anche un nuovo terreno su cui venire ingaggiati: coscientemente o meno, forniscono nuovi fronti su cui tracciarli.

L’infografica dei paesi con il maggior numero di tweet pro-ISIS, realizzata da The Independent e Statista
Lo spionaggio nell’era dei social
“Nel campo dei social media, tre diversi approcci alla sorveglianza sono stati finora attuati,” ci spiega Alessandro Burato di ITSTIME, centro di ricerca antiterrorismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. “Il primo è analizzare i dati di massa per tracciare le tendenze e gli argomenti di maggior interesse. Il secondo si concentra su un singolo individuo per ottenere quante più informazioni possibili sulla sua presenza online e sui suoi collegamenti. Solo con il terzo metodo, il più eticamente e legalmente intrusivo, si arriva all’intercettazione vera e propria di comunicazioni private.
Un lavoro di profiling, dunque, e non solo di spionaggio nel senso più letterale. Ma nonostante gli sforzi il massacro si è comunque verificato. Non viene da pensare che bisogni andare ancora più in profondità, rafforzare ulteriormente la sorveglianza per evitare che certi messaggi chiave sfuggano alle intercettazioni?
Il Professor Burato ha i suoi dubbi: “Non c’è motivo perchè si proceda verso una sorveglianza più ‘profonda’, scavando sempre più in dettaglio nella vita del singolo. Chi deve essere noto ai servizi segreti lo è già: Parigi è un ulteriore caso in cui gli attentatori non erano facce nuove. Bisogna piuttosto ampliare il panorama: tracciare collegamenti, capire le interazioni, ricostruire le reti. Non a caso, l’agenda dei servizi europei non è incentrata sull’accumulo indiscriminato di dati, ma piuttosto su come selezionare quelli realmente significativi. ”
L’antiterrorismo mediatico
Quella della comunicazione è una guerra che l’ISIS, nella sua media-savviness – “scaltrezza comunicativa” – combatte su due fronti. Da un lato c’è la propaganda della paura: con i video, i contenuti dei social network, persino con il proprio magazine in .pdf. Sono mezzi che provengono dall’Occidente tecnologizzato, e che proprio per questo risultano efficaci: se i terroristi hanno un loro account su Twitter, proprio come noi, li sentiamo improvvisamente più vicini.
Dall’altro lato c’è invece il “terrore” come descritto e riflesso dai media occidentali stessi. “L’ISIS – spiega Burato – non improvvisa nulla quando si tratta di propaganda. Sanno che la cronaca in diretta di un evento come Parigi ha un fortissimo impatto emotivo. Lo stato islamico si fa raccontare attraverso il discorso, lo stile giornalistico a cui gli spettatori occidentali sono abituati. Per questo deve esserci una strategia collaborativa tra polizia e media: bisogna minare la retorica jihadista, sabotare la loro narrativa. Mi trovo a Londra in questo momento: all’interno di ITSTIME stavamo discutendo dell’utilità di presentare Salah Abdeslam, l’attentatore fuggitivo, come un codardo incapace di portare a termine il suo compito, e mi sorprende quanto poco abbiano insistito i media inglesi su quest’aspetto, soprattutto dopo il ritrovamento della cintura inesplosa in un cassonetto a Parigi.”
In quest’ottica, chiaramente, le testimonianze in prima persona, come i filmati amatoriali, sono un’arma a doppio taglio: manca quell’intermediazione che prevenga una diffusione “isterica” delle informazioni. È la difficoltà della nuova era del web, dove è anche il pubblico stesso a produrre contenuti e fare informazione: “Durante l’operazione delle forze speciali a Bruxelles, il 22 novembre,” commenta Burato “la polizia ha dovuto chiedere alla popolazione di non pubblicare aggiornamenti sui movimenti a cui assistevano, così da non allertare i terroristi; la stessa cosa era successa durante la caccia agli attentatori della maratona di Boston, nel 2013. In questi casi, il ‘silenzio radio’ deve diventare parte della strategia, non un limite per i giornalisti.”