Proprio in questi giorni è in corso una importante frizione di natura economica e sindacale tra la dirigenza della principale agenzia di stampa italiana, l’ANSA, e le sue redazioni, in seguito all’annuncio di un piano industriale che, di fronte a cospicue perdite di bilancio, prevede tra le altre cose un sensibile taglio all’organico stabile e ai budget attraverso i quali vengono retribuiti i collaboratori. In seguito all’annuncio di tale piano, i giornalisti dell’ANSA hanno proclamato alcune giornate di sciopero, che da un lato hanno avuto un tangibile effetto sui newsmedia italiani (che hanno l’ANSA tra le loro fonti privilegiate), dall’altro hanno suscitato una importante ondata di prese di posizione da parte di rappresentanti delle Istituzioni, politici, giornalisti, intellettuali, artisti ecc., in particolare attraverso l’uso dell’hashtag #resistANSA sulle principali piattaforme di social networking.

Non intendiamo in questa sede affrontare il tema della specifica vertenza sindacale, non ne abbiamo assolutamente la competenza, e di certo esula dagli scopi e dalla mission di MediaPeriscope. Tuttavia, cogliamo l’occasione per sottolineare un aspetto interessante e spesso sottovalutato quando si analizzano le cause e le possibili soluzioni della crisi del giornalismo italiano: il rapporto che intercorre tra il taglio di natura economica, il lavoro giornalistico e la credibilità dell’informazione.

Ormai è purtroppo assodato che il sistema giornalistico (non solo italiano) attraversi, già da qualche anno, una considerevole crisi di stampo economico, che ha costretto numerosi editori a imporre drastici tagli alle redazioni, se non direttamente la chiusura delle testate. Si è dibattuto lungamente, sia tra gli studiosi e gli addetti ai lavori che a livello di opinione pubblica, sulle cause di tale crisi. Da una parte, va senz’altro tenuto conto della situazione di crisi globale, della quale non può che risentire anche il sistema dell’informazione inteso come “normale” industria presente sul mercato; d’altra parte, tuttavia, nell’analisi della crisi del giornalismo emergono in letteratura anche cause che possiamo considerare interne e intrinseche al mondo dell’informazione.

Sulla base di quanto emerge in letteratura, il lavoro del giornalista si riassume tradizionalmente in una serie di compiti: reperimento, verifica, selezione, gerarchizzazione, interpretazione, contestualizzazione, commento e presentazione dei fatti e degli eventi. Un lavoro giornalistico compiuto non può prescindere (o meglio, continua a non poter prescindere) da questi otto compiti. In parallelo, però, lo svolgimento di tali compiti da parte del giornalista, nell’attuale scenario dei media, deve far fronte a due importanti cambi di scenario:

– da un lato l’esplosione quantitativa degli eventi e dei fatti, dovuta principalmente all’aumento dei produttori di eventi (tra cui i cittadini stessi, gli altri media e newsmedia, ecc.), alla professionalizzazione delle strutture di comunicazione, all’esplosione delle piattaforme che consentono di divulgare i contenuti gratuitamente e in tempo reale;

– dall’altro la sempre maggiore facilità ad accedere a questi eventi gratuitamente e in tempo reale, a prescindere dal fatto che siano mediati o meno da un giornalista.

Provare a venire fuori dalla situazione di crisi nella quale versa il giornalismo italiano impone di far fronte a questi cambi di scenario, dal momento che appare altamente improbabile una qualsivoglia forma di inversione di tendenza da questi punti di vista. Inoltre, va tenuto conto che la crisi del giornalismo è anche una profonda crisi di credibilità (presente in tutto il mondo, e particolarmente acuta in Italia), le cui radici sono molteplici e molto diverse tra loro, ma il cui effetto in termini di riscontro economico è tendenzialmente univoco: un ulteriore motivo per il cittadino per non pagare il lavoro di intermediazione. Ciò si traduce inoltre, nei nuovi scenari giornalistici descritti, in una concorrenza che non può che ampliarsi nel momento in cui la credibilità smette di essere un fattore dirimente.

A nostro avviso il giornalista non può che prendere atto del fatto che il proprio lavoro è mutato non tanto in ciò che egli deve fare, ma in dove risiede il proprio valore aggiunto. Come premesso, infatti, un lavoro di stampo giornalistico si caratterizza ancora nel processo di intermediazione che un evento subisce, ovvero nello svolgimento degli otto compiti suddetti. Ma allo stesso modo, è necessario prendere atto che alcuni di quei compiti sono ormai condivisi: il giornalista non è più la sola figura (professionale e non) che può reperire, verificare, selezionare, gerarchizzare e commentare le notizie. Egli è senz’altro chiamato a farlo ma, alla luce di quanto detto, appare difficile che possa basarsi su questo per spingere il pubblico dei cittadini a pagare per un contenuto giornalistico. I compiti in cui si concentra il valore aggiunto sono principalmente l’interpretazione e la contestualizzazione, che rimangono a nostro avviso il “baluardo” della professionalità giornalistica, nonché i principali punti nei quali investire (da un punto di vista qualitativo e culturale) per venire a capo della crisi di credibilità.

Emerge però in maniera palese un punto critico, a nostro avviso assolutamente nodale nel momento in cui si intende affrontare nel suo complesso la crisi del giornalismo italiano. Il giornalismo si trova infatti nella situazione, apparentemente paradossale, per la quale il principale valore aggiunto del suo lavoro non risiede nella sua componente quantitativamente più esigente, e soprattutto onerosa. In altre parole, ciò che costa di più (in termini di persone, di tempo e di soldi) è condizione necessaria ma non più sufficiente per un buon giornalismo: avere giornalisti fisicamente presenti dove avvengono gli eventi, che utilizzino il tempo per verificare ciò che raccolgono (sotto forma di interviste, di testimonianze, di dichiarazioni, di documenti, ecc.), ciò che arriva dagli uffici stampa, dagli staff della comunicazione, ecc.; che, sostanzialmente, preparino e consolidino il substrato sul quale si fonda il loro valore aggiunto dell’interpretazione e della contestualizzazione. In poche parole, che sappiano gestire le fonti.

Tuttavia, lo scenario muta in maniera sostanziale quando introduciamo la distinzione tra i newsmedia che si rivolgono direttamente al pubblico e i newsmedia che si interfacciano con i giornalisti stessi. Si tratta principalmente di due categorie: gli uffici stampa e le agenzie di stampa. In questa riflessione, come anticipato, ci focalizziamo sulle seconde. Qual è il valore aggiunto del giornalismo di agenzia? Proprio quello di rappresentare una fonte, puntuale, attendibile, verificata, per gli altri media e soprattutto gli altri newsmedia. Il giornalismo d’agenzia “puro” (ovvero escludendo i casi, frequenti in Italia e molto meno all’estero, in cui l’agenzia ha anche una testata diretta al pubblico, come per esempio un portale sul web) mantiene il suo dovere etico-deontologico di rispettare l’interesse esclusivo del pubblico nello svolgimento della pratica giornalistica, ma il suo lavoro si svolge al servizio degli altri media, senza avere un rapporto diretto con il pubblico stesso. Di conseguenza, i compiti sui quali si genera il valore aggiunto dei giornalisti di agenzia sono principalmente il reperimento e la verifica, oltre a una prima fase di selezione, gerarchizzazione e contestualizzazione. Come detto, si tratta dei compiti che maggiormente richiedono dispendio di tempo e di persone, oltre che di denaro.

Giungiamo qui al punto che ci premeva mettere in luce in questo contributo. All’interno del dibattito pubblico, quando si parla di tagli al sistema dell’informazione si tendono a privilegiare letture di stampo “filosofico” (sottolineando l’importanza del giornalismo per il corretto svolgimento della vita democratica di un Paese, o al contrario rallegrandosi dell’indebolimento di un’istituzione considerata come poco credibile) o strettamente “economico” (evidenziando l’opportunità di remunerare in maniera adeguata la qualità della professionalità, o al contrario considerando troppo elevate certe retribuzioni); letture assolutamente legittime, anzi sacrosante. Troppo spesso, tuttavia, a nostro avviso si sottovaluta una componente per certi versi “intermedia” ma molto concreta: la distribuzione (per non dire la capillarità) della presenza del giornalista là dove avvengono i fatti, la sua capacità di spostarsi, il tempo che egli può dedicare agli eventi. Fare dei “tagli” ai budget delle testate giornalistiche, normalmente, si traduce in maniera consistente (potremmo arrischiarci a dire: predominante) nel limitare la capacità di quelle testate di essere presenti sui luoghi, di avere il tempo di approfondire una tematica, di ascoltare e verificare tutte le voci in capitolo, in altre parole di offrire un’informazione accurata e completa, come imporrebbe il proprio dettato etico-deontologico.

Ma a che serve avere un’informazione accurata e completa da parte del giornalista, se questi compiti – come abbiamo già detto – sono ormai condivisi? In altre parole, come ormai viene sostenuto sempre più frequentemente: perché spendere soldi e risorse per reperire e verificare le notizie, se questo compito viene ormai assolto pienamente e gratuitamente dai produttori di eventi, dai citizen journalists o dagli stessi fruitori tramite blog, forum e varie piattaforme di social networking?

È in questo passaggio che si crea il nodo fondamentale, al quale più volte abbiamo fatto riferimento, ovvero quello del rapporto tra la professionalità e la credibilità. Nel momento in cui gli attori del tradizionale processo di intermediazione giornalistica sembrano confondersi in un unico composto magmatico in cui tutti possono creare l’informazione, tutti possono verificarla e diffonderla, tutti possono commentarla e dire la propria, nel contempo tutti costruiscono la propria credibilità in maniera altrettanto magmatica, potendo ancorarla a radici di stampo valoriale (ti credo perché la pensiamo allo stesso modo) o affettivo (ti credo perché sei simpatico).

Dal punto di vista etico-deontologico, al contrario, il giornalista deve ancorare la propria credibilità a una radice cognitiva (ti credo perché sei competente in materia). In altre parole, è normale e legittimo che il produttore di eventi (per esempio, il politico, l’imprenditore, il dirigente sportivo, o meglio i loro staff di comunicazione) voglia sfruttare i “nuovi” mezzi a sua disposizione per offrire la propria visione di un determinato fatto; è perfettamente normale e legittimo anche che il fruitore sfrutti i “nuovi” canali per venire a conoscenza degli eventi, o per offrire il proprio commento; ma senza la professionalità del giornalista, difficilmente questo processo può essere chiamato “informazione”, ovvero la ricerca della verità, svolta con accuratezza, indipendenza, obiettività e responsabilità, nell’interesse esclusivo del pubblico.

Tuttavia, come detto, tale professionalità apparentemente sta diventando sempre più onerosa e scarsamente sostenibile da un punto di vista economico. La tentazione, più volte evocata e sempre più spesso anche messa in pratica, è quella di trasformare il valore aggiunto del giornalista nel suo unico compito: il sistema del giornalismo si affiderebbe quindi sempre più alla condivisione dei compiti di reperimento, verifica, selezione, gerarchizzazione e commento, per concentrare risorse umane ed economiche sull’interpretazione e la contestualizzazione dei fatti e degli eventi, che rappresenterebbero quindi la totalità della professionalità giornalistica. Così facendo, il numero di giornalisti necessari ad assolvere tali compiti sarebbe sicuramente minore, e ciò rappresenterebbe senz’altro una cospicua boccata d’ossigeno per le casse agonizzanti degli editori (che già fin troppo spesso hanno difficoltà – come minimo – a remunerare i loro collaboratori).

Ma che dire a questo punto della credibilità? Il giornalismo sarebbe quindi in grado di assolvere il suo ruolo sociale, ovvero quello, per citare Pulitzer, di essere la “vedetta sul ponte di comando della nave dello Stato”? Sarebbe davvero utile alla società un giornalismo in grado di interpretare e contestualizzare fatti il cui reperimento, la cui verifica, la cui selezione e gerarchizzazione passassero da professionalità non volte alla ricerca della verità, o direttamente da non-professionalità? La risposta, a nostro avviso, non può che essere negativa: il mondo del giornalismo necessita di mantenere delle professionalità forti, formate, competenti, che svolgano questi compiti ancora fondanti della qualità e della credibilità di un sistema dell’informazione.

In che modo, tuttavia, conciliare la necessità di mantenere tali professionalità con, da un lato, il fatto che esse non rappresentano il valore aggiunto della professione, e dall’altro la situazione economica che impone una contrazione delle spese? A questa domanda abbiamo già implicitamente risposto nei paragrafi precedenti: esiste già una professionalità giornalistica il cui valore aggiunto risiede nella qualità del reperimento, della verifica, della selezione e della gerarchizzazione dei fatti, ed è quella del giornalismo d’agenzia.

Ed è questa la conclusione alla quale giungiamo alla fine del nostro ragionamento. Pur se triste, dal punto di vista umano prima ancora che sociale e culturale, appare comprensibile che un mercato in contrazione come quello dei newsmedia operi dei tagli per far fronte a uno stato di crisi. Allo stesso tempo, appare sensato che, nell’ottica di questa contrazione, tali newsmedia deleghino alcuni dei loro compiti ad altri soggetti. Ma tali soggetti non possono non avere a loro volta una professionalità giornalistica. Il taglio alle figure professionali che reperiscono e verificano le notizie inaridisce il terreno nel quale la pianta del giornalismo affonda le sue radici, e non si può fare affidamento unicamente sul fatto che, agli occhi di chi guarda, appaiano solo rami, foglie e qualche fiore; tagliando le radici, questi ultimi possono restare belli e profumati per qualche tempo, ma poi, inevitabilmente e irrimediabilmente, si seccano.

Fuor di metafora, appare difficile pensare che un intero sistema dell’informazione possa pensare di uscire da uno stato di crisi se mina la base della propria credibilità, tantopiù se già traballante. Possiamo senz’altro ipotizzare, almeno a livello di riflessione teorica, che si debba procedere sulla strada di una scissione tra le figure professionali che si occupano di reperire, verificare, selezionare e gerarchizzare i fatti, gli eventi e le notizie, e altre figure cui sia riservato il compito di interpretarle, contestualizzarle e commentarle (escludendo il compito più “implicito”, ovvero quello di presentarle). Ma depotenziare l’una o l’altra parte potrebbe rappresentare un colpo di grazia alle possibilità di recuperare la fiducia del pubblico dei cittadini, ovvero l’unico fattore, a nostro avviso, che possa ancora spingerlo a pagare per fruire del giornalismo.

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