Durante gli ultimi dieci anni, il dibattito sull’informazione giornalistica ha prodotto quasi esclusivamente analisi – con il contribuito di filosofi, sociologi, giornalisti e pensatori vari – sugli effetti provocati da Internet. Di fronte alle frenetiche innovazioni tecnologiche le domande principali sono state due: sopravviveranno i giornali stampati ? E riusciranno i giornalisti ad utilizzare gli strumenti del web prima che le “informazioni dei cittadini” travolgano e spediscano al museo i loro vecchi arnesi di lavoro?
Alla discussione – peraltro qua e là interessante – hanno partecipato in misura minima, per diverse ragioni, le organizzazioni dei giornalisti; quasi mai i quotidiani e i canali radiotelevisivi; talvolta alcuni protagonisti del giornalismo, anche poco noti, i quali hanno sfruttato proprio i luoghi della Rete (e qualche libro stampato) per dire la loro sui cambiamenti in atto e sulle possibili prospettive.
Abbiamo letto le profezie catastrofistiche di alcuni studiosi (guru è diventato termine quasi iettatorio!) e abbiamo toccato con mano i tentennamenti di molti imprenditori, incerti sul da farsi e impauriti da scenari resi ambigui proprio dall’intreccio fra le novità e la contemporanea crisi economica, che tutto appiattiva e sconsigliava.
Le mille applicazioni che emergono dai festival del giornalismo – quello di Perugia ha il pregio di chiamare a raccolta gli innovatori di mezzo mondo – offrono il panorama delle sperimentazioni, dei tentativi attuati nei paesi più avanzati del nostro, delle tante forme di organizzazione e di produzione della notizia che sono apparse e che, nella maggioranza appaiono già destinate a tramontare. Del resto è sempre stato così, nelle epoche di mezzo, quelle che terremotano l’esistente e che sono seguite da assestamenti e lunghi periodi di immobilismo. Chi vivrà, vedrà. Nessuno può dire cosa resterà dei fermenti attuali, con buona pace dei volonterosi profeti .
Nel frattempo, in questo scenario scombussolato, non compare altrettanto fervore nell’analisi dei contenuti della comunicazione. Vince il “come” si farà, mentre il “cosa” si farà e sarà messo a disposizione dei cittadini, sembra appassionare meno. Fra coloro che studiano i problemi, sicuramente alcuni temono di apparire antichi. La notizia? Ma ti pare un tema da discutere!
Ancora più di rado, anzi mai, si incontrano opinioni, previsioni, o magari progetti, sul mestiere del giornalista. Ciò perché, è chiarissimo, molti pensano che costui probabilmente non ci sarà. Non esisterà più. Ormai, pensano, è meglio considerarlo un residuato, un lavoro in estinzione, un panda da esporre allo zoo, tanto la gente farà da sola, si informerà senza bisogno di mediatori – più o meno sinceri – grazie ai tablet, agli iphone, alle tv, ai congegni speciali e personalizzati che Bill Gates, Mark Zuckhenberg e i maghi dei laboratori , ci consegneranno. Sceglieremo come e con cosa costruire il nostronotiziario. I giornalisti saremo noi. Quanto agli scrivani del tempo antico, amen. Scomparsi. I “pennivendoli” – così ci hanno chiamato per mostrarci il loro apprezzamento – li possiamo cancellare. Come è accaduto per molti artigiani del passato: i vasai, i corniciai, i calzolai. Poi magari, qualcuno andrà a farsi fare un vestito su misura da un vecchio sarto che, tenendo fra le labbra una spilla e fra le dita un metro di plastica, gli confezionerà il “suo” giornale, fatto ad hoc, con la cronaca, il commento politico e la foto, proprio come piacciono a lui. E i pantaloni, naturalmente, col risvolto.
Invece bisogna parlarne di questi giornalisti, è necessario occuparsene. Il nostro “sistema dell’informazione ” è esploso, è inapplicabile. La legge, l’Ordine, il contratto sono attrezzi di un’altra epoca. Bisogna mettersi a studiare. Non si può lasciar fare al mercato, quello che schiavizza i giovani e paga 5 euro una cartella di trenta righe per 60 battute.
La ragione ce la spiegano i giuristi. Il giornalismo libero è necessario alla democrazia, dicono Rodotà e Zagrebelsky , è un pilastro che regge la società e che non deve traballare. Vogliamo tornare ad essere abitanti di una foresta medievale – magari dicendo che è colpa di Internet – o preferiamo una collettività basata sul rispetto delle norme? Se è questa la scelta, anche la comunicazione dovrà avere regole e le prime due non potranno che essere: libertà e verità, le stesse che il legislatore già pose a fondamento del giornalismo. Dunque, diritti e doveri , come disse Guido Gonella nel 1963. Vuoi vedere che per salvare i Panda dobbiamo tornare sempre lì?
Non so prevedere chi in Italia avrà voglia e idee per affrontare l’argomento: i partiti, gli editori, i sindacati, sembrano tutti soggetti incapaci di guardare lontano. Propongo che se ne occupino le università. Studino, discutano, si riuniscano e poi se ci riescono lancino un sasso, non dal palcoscenico di un festival, ma con un progetto di legge presentato in Parlamento. Una sfida? No, una prova di vitalità e di impegno per la costruzione di una nuova società.