È di pochi giorni fa una sapida polemica di stampo pubblicitario, che ha visto i pizzaioli napoletani (attraverso grandi nomi e associazioni di categoria) contrapporsi al colosso del fast food McDonald’s. Pietra dello scandalo, uno spot proposto da quest’ultimo per promuovere l’“Happy Meal”, storico “pacchetto” riservato ai bambini – che da sempre rappresentano uno dei principali target della comunicazione di McDonald’s, sia a livello mediatico che nella strutturazione dei punti vendita.

Lo spot “incriminato” presenta una famiglia (padre, madre, figlio piccolo) a cena fuori in pizzeria, e gioca sulla classica indecisione del “Che pizza prendo?”, divenuta ormai frequente con l’ampliarsi dell’offerta delle pizzerie che da decenni sono andate oltre le cinque-sei pizze più ligie alla tradizione. Attendendo che i due genitori risolvano l’amletico dubbio, il cameriere speranzoso chiede al bambino: “E tu che pizza vuoi?”, al che il bimbo risponde con risolutezza di volere un “Happy Meal”. Baseline: “Tuo figlio non ha dubbi”.

Apriti cielo. Lo spot, che pure è incentrato principalmente sul concetto di “dubbio” (in altre parole, non esplicita in alcun passaggio che l’“Happy Meal” sarebbe migliore della pizza), viene considerato come ostile alla pizza napoletana, nonché nocivo per le tradizioni, la salute, i diritti dei minori, ecc. Pochi giorni dopo, questa polemica torna alla ribalta allorquando viene diffuso un filmato (realizzato per un seguitissimo blog di cucina, “Le avventure culinarie di Puok e Med”), che si configura come una risposta parodistica allo spot di McDonald’s: in questo video, padre e figlio si recano in un fast food (non specificato, o meglio ricostruito), ma al momento di ritirare hamburger, bibita e patatine (anch’essi non specificati – in altre parole non è dichiaratamente un “Happy Meal”) il piccolo si ribella e pretende di avere una pizza al posto di quella «schifezza» (testuale). Le immagini successive mostrano l’intera famiglia (grandi e piccini) felice di poter gustare una pizza “a fazzoletto”, come vuole la tradizione napoletana che, è bene ricordarlo, tende a rifiutare la grande diversificazione dei possibili condimenti della pizza.

In questa breve riflessione non intendiamo certo stabilire chi abbia ragione tra McDonald’s e coloro che ne criticano il messaggio: se, come annunciato, le associazioni di categoria hanno provveduto a denunciare il colosso alle autorità competenti, saranno queste ultime a stabilire se e in che modo McDonald’s abbia commesso qualche violazione. Quello che ci interessa sottolineare in questa sede è un altro aspetto, ovvero il fatto che il filmato proposto dal blogger partenopeo sia stato da più parti definito a sua volta uno “spot” (o “contro-spot”); sia stato, insomma, considerato come una pubblicità.

La pubblicità in Italia (e non solo) non ha avuto vita facile dal punto di vista dell’immagine e della funzione, così come buona parte del mondo della comunicazione di cui è una delle principali protagoniste. Come in passato diversi autori hanno sottolineato, le posizioni “apocalittiche” sulla pubblicità (presenti fin dai primi decenni del Novecento e notevolmente rinfocolate a partire dagli anni Cinquanta da “I persuasori occulti” di Vance Packard) hanno trovato in Italia un terreno particolarmente fertile per crescere e radicarsi. La pubblicità appare come un mondo sregolato, in cui ogni mezzo è buono per mistificare la realtà; il “pubblicitario”, figura quasi mitologica, è un venditore di fumo, intento a scovare sistemi sempre più subdoli per raggirare il povero e ignaro consumatore.

Si tratta di un atteggiamento contro il quale in molti tra professionisti, studiosi e intellettuali hanno provato a lottare (per fare solo due nomi “storici”, Gian Paolo Ceserani e Gian Luigi Falabrino), ma che appare piuttosto persistente, al punto che si continua puntualmente ad assistere, in diversi ambiti, ad accuse di “fare pubblicità” (o, in senso più lato, di essere “bravi comunicatori”) per sottintendere intenti mistificatori volti a occultare pochezza di contenuti. È inoltre essenziale ricordare che il sistema pubblicitario italiano è, ormai da decenni, puntualmente ed efficacemente disciplinato e normato dall’Istituto per l’Autodisciplina Pubblicitaria, e più volte in letteratura è emerso il significativo paradosso tra una gestione invidiabile per molti (settori della comunicazione e non solo), e l’immagine di un far west comunicativo in cui il concetto di pubblicità è vacuo e, di conseguenza, tutto è permesso e nulla è sanzionabile.

Come detto, non ci permettiamo di offrire una valutazione sull’aderenza dello spot di McDonald’s ai dettami del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, né tantomeno intendiamo in questa sede discutere la qualità e l’opportunità del messaggio pubblicitario. La nostra riflessione riguarda il cosiddetto “contro-spot”. È bene evidenziarlo: da quanto si può osservare, quello realizzato dal blog partenopeo non è né vuole essere uno spot (un messaggio pubblicitario), bensì una risposta ironico/satirica al messaggio proposto da McDonald’s; come tale, non attiene al sistema della pubblicità. Ma, ai fini della percezione che si ha del sistema dell’advertising e del concetto stesso di “pubblicità”, troviamo assai significativo che, nel riportare la notizia della pubblicazione di questo filmato e nel dibattito che ne è conseguito, il filmato della “pizza a portafoglio” sia stato da più parti definito come “spot”.

Il punto che intendiamo sottolineare è che definire “spot” un qualsiasi filmato non può limitarsi ad adagiarsi sulle scelte stilistiche di chi l’ha realizzato (ovvero il fatto che tale filmato “somigli” a uno spot, includa una storyline, faccia riferimento ad altri spot, ecc.), ma implica ben altro: vuol dire esplicitarne l’intento pubblicitario, e quindi vincolarlo al rispetto del Codice di Autodisciplina. In questo senso, poco cambia la definizione di “contro-spot”: come emerso in passato in letteratura e nella giurisprudenza dello IAP, anche l’anti-pubblicità (ovvero, riassumendo, il messaggio pubblicitario volto a contrapporsi al concetto classico di pubblicità) va considerata a tutti gli effetti come pubblicità. Ed è significativo che, proprio nell’Articolo 1 del Codice di Autodisciplina, si afferma che la comunicazione commerciale debba “evitare tutto ciò che possa screditarla”: dal momento che il principale “nemico” della credibilità pubblicitaria è sempre stato lo stereotipo del “persuasore occulto”, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria afferma fin dal primo articolo del Codice che un punto cardine del sistema dell’advertising è quello di rispettare e non ledere il concetto stesso di pubblicità. È bene prendere coscienza che definire un filmato come “spot” sottintende inevitabilmente tutto ciò.

Cosa succederebbe, quindi, se provassimo a prendere sul serio la definizione data al video della “pizza a portafoglio”? Ipotizziamo, ucronisticamente, che il filmato diffuso dal blog sia a tutti gli effetti un messaggio pubblicitario, risultato dell’intenzione di un soggetto (una pizzeria, un’associazione di pizzaioli o di consumatori, ecc.) di realizzare uno spot di quel tipo, per promuovere la pizza a portafoglio, indipendentemente dal precedente spot di McDonald’s. Avremmo potuto a quel punto considerarlo come un messaggio pubblicitario volto a promuovere le tradizioni, la salute, i diritti dei minori ecc.? In questo caso, ci sentiamo abbastanza sicuri da ipotizzare che uno spot siffatto avrebbe violato, per lo meno, l’art. 14 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che vieta “ogni denigrazione delle attività, imprese o prodotti altrui, anche se non nominati” (difficilmente si potrebbe considerare altrimenti l’uso della parola “schifezza”). E a quel punto cosa avrebbe potuto fare McDonald’s? Sarebbe stato giudicato simpatico, opportuno, sapido un “contro-spot” nel quale il padre avesse portato il figlio in pizzeria, e il pargolo l’avesse rimbrottato dicendogli «Papà, ma sei matto? Non hai visto “Report”? Non sai che la pizza cotta al forno a legna mi espone a mille rischi? Portami da Mac, ché magari mangio qualcosa di meno genuino, ma più controllato a livello igienico, nutrizionale ecc.»?

È una ovvia provocazione, che gioca sugli altrettanto ovvi stereotipi e generalizzazioni propri di ogni accesa polemica, non solo in ambito pubblicitario. Tuttavia, a nostro avviso è una buona occasione per segnalare, ancora una volta, che un proficuo dibattito pubblico sulla comunicazione non può prescindere dal prendere piena contezza, a ogni livello e in particolar modo in contesti in cui la comunicazione è oggetto di studio, di ciò che la comunicazione professionale è e non è, fa e non fa, può fare e non può fare. Anche un banale misunderstanding, come quello di definire “spot” ciò che spot non è, aggiunge un piccolo tassello alla mancata comprensione da parte del pubblico del modo in cui la comunicazione può effettivamente mettersi al servizio del funzionamento di una società pienamente compiuta e democratica.

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