L’essenza dialogica dei social media, per quanto di fatto fondanti sull’individualismo digitale, viene utilizzata per strutturare massa critica intorno all’idea del nuovo Califfato. Nasce così quello che può essere qui definito come “selfisism”, la deriva iperindividualistico-narcisista del combattentismo dell’IS nella convergenza digitale, che si concretizza in “foto ricordo”, foto profilo, in cui foreign fighters che si fotografano e/o si fanno fotografare in posa con mitra e pugnale in pieno “Rambo-style”.
Talvolta l’analisi del terrorismo jihadista risulta distorta dal ritenere il mondo cyber-sociale come monoliticamente e necessariamente contraddistinto, caratterizzato e governato dall’interattività. Tale mondo che avvolge quello della vita contemporanea dell’individuo fino a divenirne talvolta, se non sempre, parte integrante, risulta anch’esso caratterizzato da una multidimensionalità che la “regia” della propaganda dell’Islamic State ha ben compreso, considerando che, come già affrontato, dissemina praticamente in modo continuo il Web di contenuti identitari che vengono apparentemente socializzati, ma di fatto rilasciati in modo monodirezionale, militarmente gerarchizzato, però sfruttando la viralità delle piattaforme di social di sharing, ormai fruibile su ogni mobile device, quindi in modo svincolato rispetto ai limiti spazio/temporali di fruizione. Tutto ciò, lasciando al contempo spazio alla produzione e proiezione identitaria del singolo individuo e della sua creatività comunicativa/operativa asimmetricamente distruttiva, ma sempre orientata a celebrare l’IS, i suoi simboli, il suo brand, attraverso la produzione individualizzata di wallpapers, nasheed, screensavers, stickers, t-shirts, animazioni, mod per videogiochi, sfondi per telefoni cellulari, video, lobby cards, al fine di sublimare le pulsioni identitarie dei sedicenti “Leoni” del Web. Ciò mette in luce due elementi di novità rispetto al passato: l’introduzione per la prima volta nel terrorismo, della figura del follower che non ha il ruolo esclusivamente passivo, di mero spettatore, anzi produce e (ri-)produce identità, nonché l’abile strategia di bypassare attraverso il culto dell’IS, dei suoi simboli, delle rappresentazioni ad esso connesse, l’iconoclastia o meglio l’aniconismo che caratterizza l’Islam. Quindi, risulta possibile affermare che si stimoli, incentivi e favorisca la creatività, il ricorso alla forza dell’immagine, dell’impatto visivo – in un mondo governato dall’immagine -, per celebrare di fatto la propria religione, ma senza venir meno ai divieti imposti, quindi attraverso il culto dello Stato come unico rappresentante della stessa, rafforzandone così ancora una volta l’autorevolezza e legittimità. Vi è tuttavia da sottolineare che ciò non significa che vi sia spazio per il dibattito, il confronto, la parola al singolo individuo all’interno dell’audience sollecitata, ma introiezione, costruzione e rinforzo identitario per mezzo della condivisione di una verità, di una visione del mondo rigidamente e frontalmente comunicata come unica possibile, secondo modalità suggestive che ricordano decisamente più lo stile comunicativo pubblicitario dei grandi brand americani del secolo scorso, che il da_wa, richiamo, appello dell’ideologia salafita. In tal senso si può notare come le narrazioni, il tenore comunicativo, l’identità mediale, lo “sguardo” dell’IS sia fortemente “occidentale”, soprattutto per quanto riguarda il carattere macabramente hollywoodiano di alcune esecuzioni, la cui progettazione e realizzazione scenografica ricordano molto da vicino la violenza rappresentata nella crime fiction televisiva o nei blockbusters incentrati sul voyeurismo e sadismo seriale. Così come si può evidenziare il fatto che la sovrapproduzione e saturazione del Web con contenuti violenti eterodiretti quantomeno favorisca l’assenza della necessità di fornire una prospettiva strategica di supporto all’azione, da argomentare e/o condividere. In tale contesto, prende quindi vita, un dogmatismo che si fonda su due miti posti alla base della propaganda IS, della sua produzione editoriale-mediale, dei proclami, dei video realizzati dai giovani combattenti “cosmopoliti”, ossia da un lato il ritorno ad un tempo antico, alla dominazione del Califfato, e dall’altro l’avvento dell’Apocalisse, il giorno finale. Si evince, pertanto, come ai giovani proto-jihadisti venga dogmaticamente offerto, ma di fatto imposto, di entrare a far parte dell’esercito dei giusti, dei cavalieri valorosi dell’antichità – siano essi protagonisti o meno del cyberspace e del cyber-Caliphate -, contro gli empi, i crociati, gli infedeli ed i miscredenti, quindi contro chiunque si opponga al Califfato ed alla Shari_a quale assetto giuridico normativo di derivazione coranica, secondo la tradizione sunnita salafita. In tal senso, lo sviluppo di un sistema infrastrutturale cyber-mediale, di media centers che provvedano alla produzione e disseminazione globale di contenuti propagandistici, pur non rappresentando una novità nell’ambito del terrorismo islamista, in quanto la prima a dotarsi di tale architettura di sistema è stata AQ, risulta imprescindibile per l’IS al fine di operare la cybercentralizzazione del terrore rappresentato che risulta essere il vero e proprio asse portante dell’identità dell’IS, gestita e sostenuta principalmente da tre pilastri: al_Hayat Media Center (HMC), al_Furqan Media Foundation (FMF), al_i’tisam Media Foundation (ITMF), ma anche Anjad Media Foundation (AMF), Asawirti Media (AM), al_Ghuraba Media (GM), al_Malahem Media (MM), Fursan al_Balagh Media (FBM). Nelle narrazioni, acquisisce sempre maggiore centralità il reportage, essenziale per la propaganda sia da un punto di vista auto-celebrativo che come “arma di seduzione di massa” in grado di sollecitare il passaggio all’azione e/o l’emulazione soprattutto dei più giovani. Le unità tattiche di combattenti dell’IS sono dotate nella migliore tradizione militare occidentale, di veri e propri media combat teams o di singoli reporters freelance, non direttamente inquadrati nelle fila delle unità di combattimento, chiamati a seguire nelle retrovie a bordo delle proprie autovetture – senza mai dimenticare di portare con sé una telecamera, un device mobile, un taccuino ma soprattutto un kalashnikov -, i convogli di mezzi pesanti in particolare per documentare e raccontare, ovviamente secondo la prospettiva jihadista, la distruzione del nemico e l’ingresso trionfale nei territori appena conquistati. Tutto ciò repentinamente montato, arricchito da slow motion ed effetti speciali audio/video, quindi disseminato attraverso le reti wi-fi, in uno scenario di tecnonomadismo militante. In assenza di rete, l’IS si serve della tecnologia e dell’individualismo, sia sul piano organizzativo-operativo che comunicativo, per creare di volta in volta infrastruttura mobile, connessione dinamica che sublima le zone d’ombra e/o di scarso segnale, con devices mobili, con telefoni satellitari, determinando così, non solo dal punto di vista tattico-operativo ma cognitivocomportamentale, una ridefinizione totale dello urban warfare nella forma delle smart mobs.
La forte identità cyber-sociale dell’IS, ha determinato un significativo mutamento all’interno del fenomeno migratorio mujahedista che tradizionalmente caratterizza la difesa attiva, armata, delle terre dell’Islam in caso di minaccia. Si registra per la prima volta un flusso consistente di individui, soprattutto europei, detti foreign fighters che lasciano il proprio Paese per sostenere le milizie dell’IS impiegate nell’azione militare in particolare sul fronte iracheno-siriano. L’avvento di questo nuovo profilo attoriale nell’ambito del combattentismo dà origine allo sviluppo di una retorica e di un linguaggio narrativo-digitale del tutto nuovo, atto a favorire il reclutamento massivo e spontaneo di giovani cittadini occidentali. Nasce così quello che si ritiene di poter concettualizzare come “avatarismo terroristico”, un fenomeno che trova le sue radici non nella rigida istruzione fondamentalista, ma nella deriva nichilista favorita dalla frustrazione nel fallimento del sistema di welfare e nelle prospettive di realizzazione di un futuro sempre più minacciato dalla disoccupazione, dall’innalzamento della soglia di povertà. Le dinamiche di marginalizzazione ed auto-esclusione che contraddistinguono molti dei cittadini europei di seconda e terza generazione, che popolano i sobborghi delle metropoli, unitamente al “ripiegamento” compulsivo digitale sui social media, sui videogiochi sempre più realistici di urban warfare, spesso alla ricerca di un qualcosa che dia senso alla loro esistenza e che soprattutto li renda meno invisibili. Da qui emerge per gli stessi la necessità di aderire ad un’idea globalmente condivisa che consenta loro di divenire altro rispetto alla loro condizione e di proiettare le proprie frustrazioni, il proprio dolore in modo violento contro il sistema ed il Paese in cui si vive in quanto ritenuti unici responsabili del proprio fallimento. Per questi soggetti non si tratta di desiderio di affiliazione e/o di militanza, intesi come riconoscimento identitario in un’ideologia e di un progetto strategico, al contrario come adesione spontaneamente svincolata a simboli e narrazioni seducenti fondate sull’azione violenta. Questo Io digitale coltivato, spesso autoradicalizzandosi all’interno dell’infosfera jihadista, diviene giorno dopo giorno come una sorta di avatar , un alter ego rispetto alla vita quotidiana in particolare dei giovani scarsamente strutturati e formati, in cui una visione rigidamente dicotomica della realtà come quella proposta dall’IS nei suoi video, all’interno delle riviste online, riesce ad attecchire con maggiore facilità ed efficacia. L’”avatarismo terroristico” risulta quindi articolarsi principalmente secondo due modalità. La prima diretta, ossia per mezzo dell’”i-nculturazione” nel cyberspace, grazie anche alla copiosità dei contenuti open source presenti. In tal caso, lo status del soggetto, il suo equilibrio di personalità, la sua fragilità e l’efficacia dei drivers motivazionali, possono favorire il passaggio all’azione dello stesso che può decidere di lasciare il proprio Paese per addestrarsi e/o per raggiungere la sua “nuova patria”, l’IS, oppure determinandosi in modo tatticamente violento e distruttivo nel contesto in cui vive per colpire il nemico da cui si sente ormai circondato. Tuttavia, si può riscontrare un’altra modalità di avatarismo terroristico, quando il soggetto decide di proiettarsi in modo immersivo nell’ambiente cyber, in particolare come follower, seguendo costantemente ed in modo interattivo le gesta di uno o più foreign fighters, talvolta anche grazie al rapporto preesistente di conoscenza/familiarità con gli stessi, o anche per un’immedesimazione grazie ad esperienze di vita comuni con quelle fatte dai combattenti stessi, grazie al potere seduttivo delle cyber-narrazioni come costruttrici di realtà condivisa attraverso i social media.
Questo articolo è un estratto del paper “La ‘mediamorfosi’ del terrorismo jihadista tra iconoclastia e stato sociale” del 25 settembre 2015, pubblicato sul sito Federalismi.it – Rivista di diritto pubblico italiano, comparato , europeo, disponibile integralmente al link.