Sono passati 3 anni dal mio Erasmus. Quell’esperienza mi ha segnato: ancora sogno l’aria di Barcellona, il sole che picchia e il vento che scuote le palme poco prima del temporale. Un ricordo continuo, lo sogno, lo vivo, lo continuo a sperimentare. L’Erasmus quando inizia non finisce più, è una spinta dinamica che continua per anni, ti cambia e ti proietta in un mondo a tratti sconosciuto. Quando ci sei ti chiedi il perché non lo hai fatto prima, quando finisce ti senti straniero in patria.
Sono arrivato a Barcellona, sì proprio a Barcellona, il 3 settembre 2012, con 4 anni da fuori sede sulle spalle, non certo un novizio, ma nemmeno un veterano. Con lo spagnolo già me la cavavo: corsi, passione e media alta sono stati il mio passaporto per l’esperienza semestrale.
Si tende a pensare a questa avventura come il paese dei balocchi, quello che i tedeschi chiamano Schlaraffenland. Si sa, i tedeschi hanno un termine per tutto. Bene, non è certo così. Raccontare un Erasmus è un’esperienza complessa tanto quanto viverla. Se c’è una cosa che ho appreso è che la bellezza sta nella difficoltà quotidiana, nella capacità di adattamento e nella consapevolezza che si sta maturando.
La storia ha un po’ dell’incredibile: ho passato le prime tre settimane vivendo in uno studio di tatuaggi, ricercando disperatamente una casa che avesse una parvenza tale da meritarsi questo nome. Un periodo che si potrebbe definire quantomeno difficile; tentare di dormire quando qualcuno sta tatuando nella stanza accanto è un’esperienza che consiglio, aiuta ad abituarsi a specifiche frequenze, un po’ come la cura che ti fanno quando hai un fischio nell’orecchio.
Il periodo dell’adattamento, nel senso darwiniano, è iniziato subito dopo aver trovato la “casa”. Le lezioni, gli amici, le feste e la scoperta della città.
Per quanto qualcuno si focalizzi sul fatto che il programma di scambio sia solamente un momento per dare sfogo alle passioni più sfrenate e al puro divertimento, per me non è così. Certo, non voglio dire che sia stato una noia terribile, ma di sicuro non era il mio scopo. Io, l’Erasmus del divertimento lo avevo già vissuto a Roma, non lo cercavo sicuramente in un altro paese.
Per me è stato un momento di scoperta interiore, di relazioni, di unicità. C’è un momento ben preciso nel quale ti senti solo, abbandonato, senza nessuno che ti possa aiutare. Potremmo benissimo chiamare questo il periodo degli schiaffi. Uno schiaffo qui, uno là. Ogni schiaffo è una lezione, che se riesci a interiorizzare a breve saprà insegnarti qualcosa. Il primo grande schiaffo arriva quando alla lezione chiedi se questa possa essere tenuta in Castillano piuttosto che in Catalano. La risposta è categorica, non sei in Spagna sei Catalogna! Scoraggiarsi è da perdenti e quindi inizia il grande sforzo, imparare il catalano. Ovviamente un grande fallimento.
Il secondo schiaffo arriva quando il 21 ottobre scopri che dovrai lasciare casa, ovviamente senza una valida alternativa. Quello che pensavi fosse stato il periodo più brutto irrompe nuovamente nel tuo “viaggio” come a dirti “non pensare sia finita qui”. Trovata la seconda sistemazione, con altri 6 coinquilini, pensi che si, questa volta potrai davvero iniziare davvero quella che tutti promettevano essere l’ESPERIENZA.
Partire e aprirsi è il primo requisito per rendersi conto della provincialità della società nella quale viviamo. L’Italia ha creato generazioni di mammoni e mamma Europa ha creato un sistema per crescerli.
Superate le prime difficoltà dovute alla sistemazione e alla lingua c’è sempre il mese in cui i soldi non bastano e certo non puoi tornare a casa a mangiare il pollo cucinato da tua nonna che a novantasei anni ancora è in grado di farlo.
Premetto che nonostante io sia cresciuto in paese di 1000 anime, la mia famiglia mi ha sempre spinto a scoprire il mondo. Da piccolo non mi entrava in testa, tutto quello di cui avevo bisogno era nel mio paese. Solo crescendo capivo che c’era qualcosa di più. Questo altrove non è solo il monumento, il parco, il locale. Il quid è la difficoltà, le persone, le relazioni che si instaurano. Potrebbe essere un inno alla difficoltà, perché ritengo che da questa derivi la vera esperienza. La difficoltà, interiore o esterna, ti plasma, ti insegna, ti cambia.
Sono tornato da 3 anni, ma ancora ricordo tutto: le cose belle e quell’insieme di difficoltà. Un insieme che ora ricordo come la cosa più bella che mi sia capitata e che mi abbia insegnato tante cose. Il giorno della partenza arriva in un battito di ciglia, proprio nel momento in cui si è integrati perfettamente nelle abitudini, negli orari e nelle stranezze di un’altra cultura. Sentirò ancora a lungo la mancanza del panino con Jamon y tomate e il saluto del barista sotto casa, come l’odio che provavo il giorno che arrivai, quel senso di repulsione con il quale all’inizio ho imparato a convivere e che piano piano si è trasformato in amore. Un tatuaggio sul cuore.