Nato in Canada da padre cubano e madre di origine irlandese e italiana, Ted Cruz è attualmente senatore in Texas oltre che uno dei candidati alle primarie statunitensi per il versante repubblicano. Al di là del personaggio e delle idee politiche del candidato, ciò che più ci interessa in questo contesto è la strategia adottata da Ted Cruz in queste primarie repubblicane, una strategia che ha fatto dell’analisi dei big data il suo cavallo di battaglia; mentre il caso che vogliamo considerare è il risultato del caucus – il meeting che i dirigenti di un partito tengono proprio per la scelta del candidato per le presidenziali – in Iowa dello scorso 1 febbraio 2016 in cui Ted Cruz è risultato vincitore con il 27,6% dei consensi, staccando rispettivamente di 3,3 e 4,5 punti percentuali i principali concorrenti Donald Trump e Marco Rubio.

Cosa si intende per big data?

Mettiamo in chiaro una cosa: il termine big data è relativamente nuovo, ma in realtà rappresenta un concetto di per sé già noto ad analisti e statistici già da diversi anni. Se non decenni. Per big data intendiamo una mole di dati, strutturati e non, molto estesa in termini di volume, velocità e varietà, tanto che l’analisi di queste informazioni richiede l’utilizzo di metodi analitici specifici e il supporto delle ICT.

Per #bigdata intendiamo una mole di dati, strutturati e non, molto estesa in termini di volume, velocità e varietà.

Il volume dei dati è molto elevato poiché proviene da un varietà di fonti diverse e possono oggi includere informazioni riguardanti transazioni economiche, social media e database pubblici. La velocità con cui questi dati vengono registrati all’interno dei database sta crescendo ogni giorno di più grande alle infrastrutture di rete, esasperando la stessa fino alla trasmissione in tempo reale. Infine la varietà. Con i big data abbiamo a che fare con informazioni differenti e di conseguenza diversi sono i formati attraverso i quali vengono strutturate.

Perché sono importanti i big data?

L’importanza dei big data, tuttavia, non si risolve in un semplice criterio quantitativo. L’importante non è avere grandi quantità di informazioni a disposizione, ma piuttosto dovremmo chiederci come utilizzarle. Come sfruttare i big data per la propria strategia, indipendentemente che questa sia di natura aziendale piuttosto che inerente la comunicazione politica?

I big data ci permettono di raccogliere informazioni provenienti da diverse fonti e analizzarle per trovare risposte di diverso tipo a seconda degli obiettivi che ci siamo posti. Se stiamo lavorando nel mondo del marketing dovremmo utilizzare i big data per capire come ampliare le proprie marginalità, ottimizzare i tempi di produzione, sviluppare prodotti o servizi ottimizzati su micro target e, in generale, prendere decisioni micro targhettizzate o addirittura personalizzate, tenendo sempre in considerazione contesto e target di riferimento.

Big data e comunicazione politica

E per quanto riguarda la comunicazione politica? Perché un candidato alle primarie, alle presidenziali, alle amministrative o alle politiche dovrebbe ricorrere ai big data? Perché dovrebbe utilizzare strumenti come Nuvi, Brandwatch o WebLive per modellare la propria strategia di comunicazione? Come sta cambiando l’approccio dei soggetti politici rispetto a questi strumenti? Per capirne di più lo abbiamo chiesto a Christian Ruggiero, docente della Sapienza Università di Roma e coordinatore dell’Osservatorio Mediamonitor Politica.

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D.: Professore, grazie al web e all’enorme mole di dati che ogni giorno noi stessi condividiamo, le aziende oggi riescono a personalizzare prodotti e servizi per renderli più vicini alle esigenze dei singoli. Vale lo stesso per la politica? Perché un candidato alle primarie dovrebbe “personalizzare” il proprio discorso sulla base delle esigenze della platea al punto di studiarne prima personalità e comportamenti?

R.: «In teoria, la politica dovrebbe rappresentare insiemi di valori così ampi da non poter essere personalizzati (destra = libertà, sinistra = solidarietà, il che per il contesto americano è ancora abbastanza vero), in pratica è dai tardi anni Settanta che si vota il candidato che si esprime con più efficacia sulle issues che ci interessano. Quindi piuttosto che rivolgermi alla platea dei Democratici o dei Repubblicani mi rivolgo a quanti vogliono, per esempio, un freno al potere delle Banche, di qua e di là della barriera. E se riesco a far arrivare i miei messaggi a chi, ad esempio nei social, si dimostra interessato al tema, ho raggiunto un potenziale elettore.

Poi c’è la dimensione spettacolare, quella per cui ogni rock band annuncia tra il furore della folla che quella particolare città è il luogo migliore dove abbia mai avuto modo di esibirsi. Il problema è semmai che la dimensione non è quella della città ma quella di quanti sperano che una nuova politica commerciale crei nuovi posti di lavoro, e ogni strumento che consenta di “raggrupparli” è il benvenuto».

D.: Donald Trump, diretto rivale di Ted Cruz, pur investendo anche lui in questo senso, ha preferito dedicare maggiori fondi a gadget e pubblicità in tv. Ma sappiamo com’è andata in Iowa. Nonostante la politica sia ancora largamente protagonista nei salotti televisivi, negli USA come in Italia, dobbiamo aspettarci campagne elettorali sempre più condotte in modo integrato tra offline e online?

R.: «Tutto sta a capire che intendiamo per integrato. Non si tratta di investire in piattaforme generaliste o social, la questione è come lo si fa, e in entrambi i casi non è necessariamente questione di soldi. Obama ha lavorato benissimo in entrambi i campi, incassando l’endorsement di Oprah – la regina del talk, che ha la potenza comunicativa di Maria De Filippi e Barbara D’Urso messe insieme e moltiplicata per 100 – e mettendo tanti giovani a lavorare sui social col linguaggio dei social.

Christian Ruggiero: non si tratta di investire in piattaforme generaliste o #social, la questione è come lo si fa.

Nonostante l’Iowa, Trump rimane il personaggio più in vista di questa campagna, e la visibilità, nel bene e nel male, è ancora una volta trasversale alle due arene, e ha effetti incontrollabili. Potrà essere oggetto della satira di Jimmy Fallon e di Facebook insieme, ma se questo riduca o aumenti il suo pacchetto di voti è difficile da dire».

Il giusto equilibrio

A oggi, come riportato anche da Fast Company, Ted Cruz ha investito qualcosa come 10 milioni di dollari nel data mining, una somma decisamente più alta di quanto investivo invece dal magnate Donald Trump (circa 740 mila dollari), da Jeb Bush con i suoi 800 mila dollari e da Marco Rubio, fermo solo a 450 mila dollari.

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Per completezza, c’è anche da dire che la strategia di Ted Cruz per queste primarie non è fatta solo di big data, ma anche di comizi, visite nelle comunità, incontri con i pastori (una pratica molto diffusa negli States) e il sempreverde porta a porta. Come a dire che la comunicazione politica ha ancora (e forse sempre avrà) i suoi capisaldi nel face-to-face, in quel tipo d’interazione che solo la comunicazione in presenza, non mediata, può offrire agli interlocutori. E Donald Trump, che in tv (con il benestare di Fox News), social media e gadget, ha investito milioni di dollari in campagne pubblicitarie propriamente dette resta, per ora, al secondo posto.

Ma il caucus dell’Iowa non è altro se non il kick off delle primarie repubblicane. La strada è ancora lunga per i candidati e altrettanto lo è il calendario delle votazioni che non si chiuderà prima del 7 giugno per i repubblicani e del 14 giugno per i democratici, quando poi inizierà un altro lungo cammino: la corsa alla Casa Bianca.

Big data e politica: l’asso nella manica di Ted Cruz è stato pubblicato l’8 febbraio 2016 su Polk&Union.

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