Il referendum inglese dello scorso 23 giugno ha sancito la fine della membership europea della Gran Bretagna, lasciando una scia di incertezze, insieme alla paura di un effetto domino in altri paesi del Vecchio Continente. Le previsioni mostrano un quadro ancora indefinito, ma prospettano una generale involuzione in termini economici e demografici. L’Unione, secondo Ambrosetti, AD dell’European House, assisterà a un -6% di export fuori confine, a un -13,8% di posti di lavoro. Quanto alla popolazione, con il leave inglese, il numero di giovani in Europa diminuisce del 14.2% e il numero sella popolazione – in generale – del 12,8%. Inoltre, secondo le stime dell’agenzia di rating Standard & Poor’s (S&P), Brexit costerà al paese l’1,2% del Pil nel 2017 e l’1% nel 2018 e lo 0,8% del Pil nel biennio 2017-2018 all’Eurozona.

Non solo: S&P, dopo il referendum, ha declassato il Regno Unito dal grado AAA, indice di elevata affidabilità finanziaria, ad una doppia A (AA), proprio a causa delle prospettive di instabilità nella Queen’s Land. Brexit comporterà anche lo stop dei contributi versati a Bruxelles da Londra, che contribuiva al budget europeo con circa 11 miliardi di sterline l’anno, lo 0,5% del suo Pil, ricevendo in cambio circa 7 miliardi di sterline, la maggior parte destinati al settore agricolo (dati Commissione europea). Forte sarà l’impatto, invece, sul PIL di alcuni paesi europei. Prendendo in considerazione esportazioni in GB, investimenti diretti e flussi migratori, emerge che Irlanda, Lussemburgo e Cipro sono i paesi europei più esposti. Seguono Malta, Belgio, Olanda, Spagna, Norvegia, Svezia, Francia, Germania, Danimarca, Lituania, Canada, Finlandia e Ungheria. Ultimi della lista sono invece Austria e Italia che dall’export oltre Manica ricavano solo l’1,3% del Pil. Nonostante uno scenario d’insieme negativo, le condizioni avverse potrebbero offrire nuove opportunità ad altri stati: le banche sono state le prime a essere colpite dalla vittoria del leave e molte di queste, con sede a Londra, stanno esprimendo la loro volontà di abbandonare la City londinese per evitare di rimanere fuori dai flussi finanziari europei.

Se pure il quartier generale rimanesse fisso, si potrebbe assistere a un ridimensionamento delle strutture: Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan (azienda leader nei servizi finanziari globali), ha avvertito che la banca americana, con oltre 16mila impiegati nel Regno Unito, potrebbe spostare tra le 1.000 e le 4.000 persone. Questa decisione potrebbe rappresentare una buona opportunità per altre piazze affari dell’Unione. L’uscita della Gran Bretagna ha anche dato inizio alla corsa per accaparrarsi il titolo di nuova “capitale” delle “start-up” – aziende giovani e di giovani – da parte degli altri stati. Berlino, Dublino, Amsterdam e Stoccolma sono già in competizione per primeggiare nel mercato redditizio dell’industria innovativa, approfittando della circostanza favorevole. Brexit – intanto – è rimandata a gennaio: il governo britannico, riferisce l’Independent, il 19 luglio ha annunciato che il Regno Unito non chiederà l’applicazione del trattato 50 del Trattato di Lisbona – che regola l’uscita di uno Stato membro dall’Unione europea – prima della fine dell’anno.

Articolo di:
Caterina Isidori 
Giulia Idolatri

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