Nel corso dell’ultima settimana l’opinione pubblica è stata nuovamente sconvolta da due attacchi terroristici riconducibili all’estremismo di matrice islamica, il cui bilancio complessivo delle vittime è già superiore alle 100 unità e sembra purtroppo destinato a crescere.

Il primo di questi attacchi ha avuto luogo il 22 marzo a Bruxelles, nel cuore geografico e politico dell’Europa, dove due ordigni sono esplosi all’aeroporto internazionale di Zaventem, e un terzo in un vagone della metropolitana tra le stazioni di Maelbeek e di Schuman, ovvero quelle che servono i principali uffici del Parlamento europeo, dell’Unione europea e della Commissione europea; questi attentati sono stati rivendicati dal cosiddetto Stato Islamico.

Il secondo di questi attacchi ha avuto luogo nel giorno di Pasqua, a Lahore, in Pakistan: una persona si è fatta esplodere in un parco giochi nel quale numerose famiglie cristiane stavano celebrando la Pasqua. L’attentato, rivendicato da un gruppo terrorista talebano, è stato particolarmente scioccante proprio per via del luogo in cui è avvenuto, e per l’inevitabile conseguenza di un elevato numero di bambini tra le vittime.

A latere della cronaca e dei commenti relativi alla tematica del terrorismo di matrice islamica che sono inevitabilmente scaturiti da questi due sanguinosi eventi, è interessante notare come la loro prossimità temporale abbia dato vita a una polemica – che potremmo definire “accessoria” – in seno all’opinione pubblica riguardante le differenze con cui i due eventi sono stati trattati e recepiti dai media e dai news media così come dai singoli utenti delle piattaforme dei social network. Infatti, da più parti è stato sottolineato come gli attentati di Bruxelles avessero suscitato molta più partecipazione, più preoccupazione, più indignazione rispetto a quello – non meno efferato e sanguinario – di Lahore. In altre parole, si notava come in seno all’opinione pubblica nostrana ci fossero “morti di serie A e morti di serie B”, sulla base della loro vicinanza all’Italia.

Tale polemica ha avuto un terreno particolarmente fertile proprio sui social network sites, dove tali differenze apparivano anche più plateali, dal momento che la partecipazione e lo shock spesso si traducono (in maniera ormai dolorosamente abituale) nella condivisione di determinate immagini (fotografie, disegni, frasi o testi significativi), determinati colori (l’esempio più noto è probabilmente rappresentato dalla possibilità di decorare la propria immagine del profilo di Facebook con i colori della bandiera francese in seguito agli attentati di novembre 2015) o determinate espressioni (primo tra tutti l’ormai inevitabile – e probabilmente abusato – hashtag #JeSuis, seguito da ciò a cui si vuole manifestare solidarietà).

Questa polemica consente di proporre una breve riflessione in merito ad alcune dinamiche dei media e, in particolare, dei news media. Innanzi tutto, è necessario osservare preliminarmente che la polemica in sé contiene un’importante presa di coscienza: come è stato già più volte sottolineato in letteratura come nel dibattito accademico e pubblico, i media “occidentali” hanno effettivamente trascurato, nel corso degli ultimi anni, il crescente fenomeno degli attentati alle comunità cristiane nel mondo, un fenomeno che è stato portato in maniera più compiuta agli occhi dell’opinione pubblica “occidentale” solo nell’ultimo anno.

Di converso, la polemica stessa, per il modo in cui è stata posta sui social network sites, contiene in sé anche un significativo paradosso: all’interno delle bacheche o delle timeline, infatti, si poteva riscontrare una cospicua quantità di messaggi e di interventi (di giornalisti, politici, “opinion leader” e gente comune) che denunciavano l’assenza di copertura e attenzione per l’attentato di Lahore. La cosa appariva ancor più singolare, dal momento che – già dopo pochissime ore – il fatto di denunciare la mancata copertura dell’evento rappresentava una delle sue principali coperture, e il fatto di denunciare la mancata partecipazione, il mancato cordoglio, il mancato shock, in qualche modo sostituiva questi stessi sentimenti: risultava infatti piuttosto frequente che, in seno ai singoli profili, non ci fossero manifestazioni di dolore o partecipazione per l’attentato di Lahore (anche solo attraverso la condivisione della notizia) ma direttamente la denuncia dell’assenza di tali sentimenti nell’altrui atteggiamento, sia quello dei singoli utenti che quello di media e istituzioni (per esempio con la frequente richiesta di iniziative paragonabili a quelle intraprese per Francia e Belgio, come l’illuminazione dei monumenti con i colori della bandiera di quei Paesi).

Tuttavia, a mio avviso l’aspetto più interessante da mettere in luce riguarda la declinazione di tale critica in termini giornalistici, e verte quindi sul concetto di vicinanza. La vicinanza fa parte dei cosiddetti criteri di notiziabilità (o valori-notizia, o ancora news values), ovvero quei criteri attraverso i quali un determinato evento può diventare notizia: un evento meritevole di essere analizzato da un giornalista e portato all’attenzione del pubblico. I criteri di dimensione, novità e vicinanza – riferendoci così alle denominazioni che propone Papuzzi (2010) – sono in qualche modo quelli più basilari, e affermano rispettivamente che un evento è tanto più notiziabile quanto più esso è grande e importante, inatteso, e percepito come vicino dal pubblico cui l’informazione è rivolta. Prendendo come esempio un evento simile, quindi, un attentato è tanto più notiziabile quanto più alto è il numero delle vittime e dei danni; quanto più è inatteso (per esempio perché avviene in un territorio abitualmente non teatro di guerriglia); e quanto più è riconducibile all’Italia, sia per la vicinanza geografica (un attentato in Italia, o in un Paese vicino al nostro) sia per la presenza di italiani tra gli obiettivi, le vittime o tra gli attentatori.

Come giustamente sottolineano Sorrentino e Bianda (2013), i criteri di notiziabilità sono strutturalmente flessibili, e com’è ovvio nella grande maggioranza dei casi si presentano in contemporanea (non solo i tre sopracitati, ma anche gli altri – sempre per riprendere la classificazione di Papuzzi: comunicabilità, drammaticità, conflittualità, conseguenze pratiche, human interest, idea di progresso, prestigio sociale). E nello specifico proprio il criterio di vicinanza, secondo gli autori (che lo denominano prossimità), è sfaccettato, e presenta una declinazione territoriale e una culturale.

Proprio la vicinanza (o prossimità) è il valore-notizia maggiormente coinvolto dalla polemica sui “morti di serie B”. Non si tratta di una novità, in realtà: ogni copertura di eventi tragici di questo tipo contiene, in maniera più o meno prioritaria, un focus specifico sulla presenza o meno di italiani; e non è infrequente che proprio questi focus inneschino osservazioni e critiche legate alla scelta di dare priorità a ciò che è riconducibile all’Italia: tale scelta viene come minimo ritenuta inopportuna, ma ci si spinge anche a considerarla cinica e finanche disumana, sulla base della citata e supposta differenziazione tra i morti di serie A (gli italiani) e di serie B (gli altri).

Il punto più interessante della riflessione riguardo una disparità di trattamento tra gli attentati di Bruxelles e quello di Lahore non consiste nell’applicazione stretta del criterio di vicinanza, quanto piuttosto nella sua peculiare contaminazione con un altro valore-notizia, quello dello human interest. Quest’ultimo caratterizza gli eventi che possono suscitare nel pubblico una maggiore partecipazione emotiva, che spingono a condividere sentimenti e dinamiche degli eventi.

Nel caso di Bruxelles, quindi, la maggiore attenzione data dai media e dagli utenti non è legata al fatto che Bruxelles sia più vicino di Lahore in senso geografico, e per molti versi neanche in senso culturale (stesso continente, elevata presenza di stranieri, simbolo europeo): ciò che sentiamo vicino, in maniera significativa (se non preponderante), è il sentimento che è intrinseco all’evento stesso, ovvero la paura. O meglio: la percezione della probabilità che un evento come quello di Bruxelles possa capitare anche a noi.

Non si tratta quindi (soltanto) di una vicinanza geografica, e neanche (soltanto) di una vicinanza culturale, ma di una vicinanza che potremmo definire “sentimentale”: immaginare cosa succederebbe se avvenisse la stessa cosa in Italia, ma anche percepire che potrebbe avvenire in Italia. La differenza quindi risiede in questa “probabilità”: è certo possibile dovunque un attacco efferato come quello avvenuto in un parco giochi, ma è meno probabile che avvenga con quelle modalità (ovvero l’attacco a una minoranza cristiana intenta a celebrare la Pasqua in un Paese a maggioranza islamica, e in cui fenomeni terroristici sono più frequenti).

Al contrario, palazzi rappresentativi di istituzioni condivise, aeroporti internazionali, metropolitane frequentate da persone di diverse nazionalità e religioni; il modo di vestire delle persone, il fatto che abbiano smartphone e tablet per condividere ciò che sta succedendo; finanche un leader politico italiano che documenta la sua presenza nelle vicinanze guadagnandone in visibilità: si tratta di componenti nelle quali il pubblico italiano trova maggior facilità di immedesimazione e, di conseguenza, un maggior interesse sia nell’ottica di sapere cosa sta succedendo, sia nell’ottica di comprendere cosa succederebbe “se”. A cominciare dall’atteggiamento da tenere fin dal giorno successivo nei comportamenti abituali.

Il paragone tra la notiziabilità degli attentati di Bruxelles e di quello di Lahore, e in particolare tra le reazioni dell’opinione pubblica italiana a tale notiziabilità, è interessante perché permette in qualche modo di “isolare” un valore-notizia peculiare, quello riconducibile non agli attentati ma alla paura degli attentati, ovvero, in una parola, al terrorismo. In un periodo storico in cui questo fenomeno si sta “conquistando” l’attenzione di tutta l’opinione pubblica occidentale, da più parti ci si interroga sul ruolo che i mezzi di comunicazione, e il giornalismo in particolare, devono avere nella gestione, in senso lato, della paura – o meglio del terrore.

Si tratta di un fenomeno che l’Italia aveva sopito per circa trent’anni, dall’esaurimento del periodo della cosiddetta “Strategia della tensione”, non a caso spesso richiamata nell’analisi giornalistica e politologica successiva agli attentati. Da allora lo scenario dei media è profondamente cambiato, da ogni punto di vista esso possa essere preso in analisi. Proprio la compresenza di un valore-notizia “storico”, come la vicinanza, e di un fattore nuovo della comunicazione e dell’informazione, come la partecipazione, propone la chiave di lettura di ciò che il cittadino vuole dai news media, e allo stesso tempo offre un’indicazione attendibile di ciò di cui ha bisogno. Si tratta di un’altra, ulteriore, complicata sfida che viene posta al mondo dell’informazione, il cui compito, oltre alla necessaria competenza, richiede con sempre maggior forza una ineludibile componente di responsabilità.

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