“Suspension of disbelief”. E’ una condizione che il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge descrisse nel 1816 per indicare una volontaria e momentanea sospensione dell’incredulità, sospensione ritenuta necessaria al pieno godimento di un’opera letteraria. Il concetto, formulato evidentemente in epoca pre-televisiva, richiama un esercizio semplice e ricorrente della nostra esperienza di telespettatori: siamo chiamati a sorvolare su alcune incongruenze tra realtà e finzione narrativa purché l’autore riesca a infondere un senso di probabilità ad ogni storia.
E’ possibile viaggiare nel tempo e cambiare il corso degli eventi? – con il conseguente armamentario di interrogativi morali: è legittimo cambiare il corso degli eventi? – . Possono i morti risvegliarsi e rincarnarsi? Se ho circa 11 anni, posso ospitare impunemente un extraterrestre nel mio bagno? Sì, sì e sì. A patto che la narrazione renda plausibile e godibile disporre di una macchina del tempo, di una provincia alpina francese sufficientemente anonima, di un gruppo di botanici alieni in fuga e di genitori distratti. Tale condizione fa di narrazione e fruizione un ecosistema perfetto, integro: seguo le vicende e, se la cosa mi aggrada, concedo all’autore le licenze poetiche del caso. Ritorno poi nel mio habitat primario, logicamente ordinato. Coleridge ci avverte però di una qualità necessaria alla sospensione del dubbio: essa deve essere momentanea. Finita la narrazione è tuo dovere rinsavire: il passato è immutabile, i morti restano cenere e gli alieni esistono solo a Roswell ma, in ogni caso, non risiedono nei nostri bilocali metropolitani. Ora, in barba a tale prudente indicazione, la letteratura ottocentesca pullula di aneddoti in cui la sospensione del dubbio muta in una forma più persistente, e dunque estremamente insidiosa. Per esempio, è famoso il caso di Gustave Flaubert che volle ritirare tutte le copie di Madame Bovary quando scoprì che Emma era diventata più famosa del suo ideatore. O quello di Alfred Jarry, l’autore di Ubu Re, fagocitato a tal punto dal suo personaggio da essere chiamato da amici e colleghi letterati Padre Ubu. Oscar Wilde dichiarò che il dolore più grande della sua vita fu la morte di Lucien Rubempré, il protagonista di Splendori e miserie delle cortigiane di Honoré de Balzac. Un esempio cinematografico? La struggente incarnazione di Tom Baxter per raggiungere l’amata Cecilia ne La rosa purpurea del Cairo (quest’ultimo potrebbe essere addirittura citato come un raro caso di meta-sospensione dell’incredulità poiché trattasi di una sospensione propedeutica alla sospensione).
Tutto questo preambolo perché, prima che l’articolo mi scappasse di mano, volevo raccontare il caso di Frank Underwood, presidente in carica degli Stati Uniti (nella serie House of Cards – Gli intrighi del potere). Per i pochi ignari della serie Netflix (in Italia, Sky Atlantic), non starò a riassumere le intricate vicende che hanno portato Underwood da aspirante Segretario di Stato, a reietto del Partito Democratico, sino alla carica di Presidente. Per assaporare lo spessore del personaggio, basterà riportare qualche citazione: “Ci sono due tipi di dolore: quello che fortifica e quello inutile, in cui soffri e basta. Io perdo la pazienza con le cose inutili”. Oppure: “Qual è il volto di un codardo? La sua nuca mentre fugge da una battaglia!” Ma la mia preferita rimane: “I soldi sono come ville di lusso che iniziano a cadere a pezzi dopo pochi anni. Il potere è la solida costruzione in pietra che dura per secoli. Non riesco a rispettare chi non vede questa differenza”. Underwood è la specie più temibile dell’ecosistema narrativo evocato da Coleridge poiché gli autori (che dio li protegga sempre) hanno deciso di dotarlo di autocoscienza, ossia di un espediente narrativo che prevede che il protagonista si rivolga al pubblico come-se-fosse-reale e, di imperio, decostruisca le regole della finzione (e, in effetti, la mia citazione preferita di poc’anzi ricade proprio in questa circostanza). E, tra queste, la regola aurea: quella momentanea (circoscritta, lieve, temporanea, reversibile ecc. ecc.) suspension of disbelief che mette al riparo dalle mire anarco-espansioniste dei protagonisti (del resto, ne abbiamo orora declinati gli effetti perversi). Come se non bastasse, a non far riposare Coleridge in pace, ci ha pensato un ignoto appassionato della serie tv che ha dotato il personaggio di un account Twitter molto seguito (@Frank_Underwood) che ne fa, tra gli inufficiali, il più ufficiale. I post generalmente contengono citazioni più o meno fedeli tratte dalla serie, interrotte solo da inoffensivi botta e risposta tra Frank e i suoi numerosi fan. L’idea è carina ma non proprio originale.
Finora, non abbiamo nulla da temere. Accade, però, che il 12 aprile, Underwood scriva alla vera Hillary Clinton (@HillaryClinton) che ha appena annunciato la sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2016. Benvenuta anche a te Hillary – sottintende Frank sentendosi pienamente a proprio agio nelle vesti di antagonista – tanti cari in bocca al lupo per un meraviglioso dibattito politico. Ma alla fine sarò io a vincere. La signora Clinton, che immaginiamo in tutt’altre faccende affaccendata, ha distrattamente ignorato l’endorsement e ricollocato il caro Frank dove gli compete: nello spazio bidimensionale di una innocua serie tv. Ma si intromette tra i due Michele Emiliano (@micheleemiliano), candidato per il centrosinistra a governatore della Puglia e affetto, inconsapevole, dal medesimo morbo di Flaubert: “Per favore, aiutatemi a trovare un candidato repubblicano per le elezioni in Puglia. Io sono quello democratico e sono ancora solo” supplica rivolgendosi a Frank e Hillary. E, in questo caso, l’improbabile conversazione non finisce qui perché Underwood risponde a Emiliano: “Ok, puoi avere Marco Rubio” (candidato alle primarie per il partito repubblicano). Devo proprio dichiaralo, a questo punto, il dubbio che mi ronza in testa da giorni: quanti voti sposterà Frank Underwood?