Aula Magna del Rettorato, la Sapienza. Accredito obbligatorio, controlli all’ingresso e posti riservati in sala, anche per noi giovani. Cultura, informazione e modernità: queste le parole chiave del convegno che, da una brochure appoggiata su una poltroncina, leggo essere l’atto conclusivo di una serie di incontri sollecitati dal Comitato Regionale dei Coordinamento delle Università del Lazio e dal suo Presidente, in collaborazione con tutti gli atenei regionali e con il MIUR.
Sul palco, un tavolo preparato appositamente per l’occasione, in arrivo ci sono ospiti importanti e professori di rilievo. Affianco, un artista racconta, su un grande cartellone bianco e attraverso le immagini, sensazioni e punti chiave della giornata.
Dall’opuscolo, che spulcio in ogni minima parte, leggo nomi di peso. Su tutti quello del Presidente del Senato della Repubblica, Pietro Grasso, e del giurista e politico Stefano Rodotà. Non li ho mai sentiti parlare dal vivo. Ma che c’azzecco, io, povero studente senza una lira, ad un convegno di tale portata? Ah sì, devo portare a casa un pezzo per la mia redazione.
E’ un convegno ritmato, fluido, che vede alternarsi i contributi di professori e ricercatori suddivisi in vari panel. Tra i tanti, uno mi cattura con forza. Riguarda il rapporto tra i giovani, la tecnologia e il loro – nonché mio e nostro – patrimonio di conoscenze. Penso a tutti gli aggeggi tecnologici che ho. A quelli comprati e a quelli regalati. A quelli per cui ho seguito un tutorial su YouTube per capire come modificare le impostazioni e a quelli compresi da autodidatta. A quelli indispensabili e a quelli meno utili.
Sul palco si continua a parlare. Ecco il fulcro del discorso: quanto ne sappiamo di web, essendo nativi digitali? Ma scuola e comunicazione collaborano per istruire noi, nuovi protagonisti della società? Da casa basta un click, o un like, e ci riteniamo soddisfatti per aver dato il nostro contributo a non si sa cosa: ma questo attivismo da poltrona prevarrà, anche in futuro, sulla reale partecipazione attiva delle persone?
Tanti spunti di riflessione pervadono la mia testa, domande che meriterebbero una risposta soprattutto da parte nostra, ragazzi del presente e uomini del domani, che pubblichiamo foto, vediamo serie tv e facciamo ricerche su Internet alla stessa velocità di un battito di ciglia.
La convergenza digitale e l’incessante sviluppo della tecnologia fanno ormai parte della nostra quotidianità, dei nostri tempi. Scandiscono le nostre giornate, influenzano le modalità di rapporto tra persone, ci costringono a stare continuamente connessi per non essere esclusi. Ma se sono talmente fondamentali, quanto pensiamo di saperne? Quanto le istituzioni che hanno il dovere di educare le nuove generazioni percepiscono i mutamenti culturali della società?
Sento dire che a noi giovani spetta il compito di estendere i confini della democrazia, caposaldo che, ripetutamente, è messo in crisi dal crollo delle opportunità di lavoro per chi si accinge ad entrare nel mondo dei grandi. Democrazia? Aspetta, mi è arrivata la notifica di un mi piace su Facebook. Del resto, ai giovani importa molto dei cosiddetti social media.
Ma come poterne sfruttare appieno le potenzialità? Conoscenza e competenza digitale – a quanto pare – sono i primi passi verso un utilizzo corretto ed efficace di questi strumenti, sia in termini di dinamiche di partecipazione sociale sia in ambito lavorativo e culturale. Sembra che a famiglia e scuole, principali agenzie di socializzazione, spetti il compito di avviare e avviarci al digitale. A istruire ed istruirci. Ad educare ed educarci. Rischi, pericoli, ma anche peso, influenza e potenzialità del mondo web devono essere compresi sin dalle prime fasi di approccio alla sfera sociale.
Sappiamo informarci, o crediamo di farlo correttamente, siamo portatori naturali di vene critiche e, talvolta, poco obiettive, siamo grandi fautori di incredibili interpretazioni di questioni che spaziano dall’astrofisica al gossip più becero. Saper condividere attraverso un click, o semplicemente riuscire a navigare su Internet, non è simbolo di conoscenza teorica ed esperienza pratica. È il risultato di un dolce e comodo navigare in un mare magnum dai confini infiniti.
Sento dire come mai, se cambiano le leggi e le riforme, non si modificano anche le modalità, all’interno delle stesse scuole, di interpretare la realtà sociale e culturale che ci circonda? Ma in questo caso, se mai si dovesse cercare una colpa, chi sarebbe l’imputato? Non basta dotarsi dei più svariati strumenti tecnologici, già vecchi un secondo dopo l’acquisto, per poter dire di essere in possesso di una competenza digitale.
Quale sarebbe una possibile soluzione? È la strada intrapresa dal MIUR, che attraverso il Piano Nazionale Scuola Digitale, mira a creare programmi didattici volti allo sviluppo delle abilità comunicative e digitali, supportati da progetti di collaborazione tra scuola a lavoro, che riducano la distanza tra i due mondi. Siamo tutti inseriti nella società, ma, talvolta, non sappiamo apprezzarla, capirla, interpretarla. La verità, poi, è diversa.
Nasciamo coi selfie. Maturiamo con gli hashtag. Moriamo con carta e penna.