Appunti sulla presentazione del saggio di Lucio Altarelli “La città plurale. Architettura e paesaggio nella post-modernità” – Caffè Letterario di Architettura, 11 maggio 2015

Parlare di città – e più ancora di quella sua declinazione che in epoca moderna si è chiamata metropoli – significa parlare di spazio fisico e di territorio, delle forme dell’abitare che la sua storia produce, degli attraversamenti e conflitti che ne derivano, e infine della produzione e ricerca di senso che caratterizzano l’esperienza quotidiana – anche mediata – da parte dei suoi abitanti. L’evoluzione e i destini della metropoli si intrecciano a quelli della civiltà industriale e postindustriale: la società di massa prima e quella delle reti poi hanno prodotto entrambe città – e cittadini – a loro immagine. E dunque, a leggere diacronicamente fortune e criticità dell’occidente industriale e del suo modello di sviluppo, ce n’è abbastanza per dire che che di città si parlerà – e scriverà – ancora a lungo. Il tempo dell’abitare urbano è un tempo che, pur fra tentazioni ricorrenti di decretarne la fine, si allunga inevitabilmente verso il futuro.

Tra le molte forme narrative che hanno tentato di raccontare la realtà urbana (dal romanzo ottocentesco al cinema, dalle Grandi Esposizioni ai videogames), quello di procedere attraverso suggestioni e figure è un esercizio tanto frequente quanto accattivante – a patto naturalmente di ricordare che nessuna delle tessere, e neppure la loro somma, sarà sufficiente a restituire una immagine compiuta del mosaico metropolitano. In questa tradizione di narrazione per immagini, con cui si confrontata spesso anche la saggistica, si inserisce appunto la proposta di lettura di Altarelli.

All’idea che la città contemporanea sia un organismo più complesso rispetto a quello della città classica e moderna, l’autore oppone una chiave di lettura che parla piuttosto di una sua crescente articolazione: appunto quella proposta nel saggio, che affida a tag talvolta insolite (la città è “archeologica”, “comunicazionale”, ma anche “tatuata”) il compito di descriverla senza ricondurla a sintesi. L’operazione condotta da Altarelli sull’oggetto-città restituisce inoltre la convivenza non sempre pacifica dell’elemento materiale e di quello immateriale, dell’artefatto metropolitano, (strade, piazze, edifici: l’hardware della città), e dei suoi abitanti (con le loro intelligenze e desideri: il software).

Letta nell’insieme, la discussione affidata a Massimo Ilardi e Isabella Pezzini ci dice qualcosa della persistenza di due dimensioni che storicamente si fronteggiano sulla scena pubblica della città: quella del politico e quella del consumo.

Ilardi ripercorre la storia recente di Roma e il passaggio da città “provinciale” a metropoli, idealmente collocato lungo il corso degli anni Settanta del Novecento. Si è trattato di un transito culturale, sociale e antropologico, oltre che politico (documentato sulla scena del governo della città dall’emergere di amministratori eccentrici come Renato Nicolini, promotore di fortunate contaminazioni nel tessuto sociale romano, tra periferia e centro). Proprio sullo sfondo di questa transizione si scorge il conflitto tra politica e mercato, tra leggi e desideri, che soprattutto nei grandi centri urbani sembra risolversi, paradossalmente proprio in quegli anni densi di passioni politiche, con i primi segni della vittoria del consumo sulla partecipazione. Lo stesso consumo che orienta l’individuo – il cittadino – alla distruzione e dissipazione, concentrate nel presente, piuttosto che alla produzione di merci e, per estensione, alla costruzione di futuro.

È questo il movimento che si oppone alla smaterializzazione dei processi, anche a quelli della vita pubblica, evidenziati da Altarelli: la ri-materializzazione e l’investimento dei desideri, che vanno nella direzione del rivendicazione del diritto alle merci e del consumo – un consumo che riguarda anche la città, e diviene rivendicazione a possederla da parte di chi è tradizionalmente escluso dallo “spazio dei flussi” dei centri storici.

E le perifierie? Simbolo per eccellenza della contaminazione che attenta alla presunta purezza dei centri storici, sono spesso proprio questi spazi, tra borgate riqualificate ed edifici ex industriali ridestinati o occupati – dunque riappropriati da quella stessa cittadinanza che rivendica un nuovo diritto alla città, come efficacemente lo aveva definito, negli anni della contestazione, Henri Lefebvre – che manifestano, come ideale controcanto della tendenza al consumo della città, nuove tendenze alla produzione di cittadinanza. Su questa scorta, si affida alle immagini anche il commento di Pezzini, mentre rievoca una lettura della città che procede per visioni “paesaggistiche” ricostruite a partire da sguardi che sorvolano le città e ne rilevano la qualità polisensoriale, tattile, visibile, sonora e del gusto. Alla ricerca, appunto del senso che le pratiche (linguistiche, culturali, artistiche e più in generale espressive) provano a incidere sull’oggetto-città. Da questi paesaggi semiotici urbani affiorano le esperienze ormai diffuse della street art, lette come tentativo di affermare l’eterno ritorno dell’urbano come spazio pubblico. Riproponendo così la città come luogo in cui sopravvivono, sempre sfidandosi, la dimensione storicizzata e colta dei monumenti e del turismo d’élite e quella presentificata e apparentemente poco incline a coltivare memoria delle cattedrali del consumo.

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