“Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione”. È questo l’incipit dell’articolo 10, punto 1, della Cedu, acronimo di Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritto dell’uomo sottoscritta nel 1953. La libertà di espressione, che dovrebbe essere un caposaldo in ogni nazione democratica, non è invece la priorità in un mondo pur globalizzato. Vicino a noi, anzi vicinissimo, tanto per citarne uno a caso, c’è l’Egitto. Lì regna dal 2012 Al-sisi salito al potere dopo aver rovesciato il precedente governo e soppresso nel sangue i Fratelli musulmani, gli acerrimi rivali. Al-sisi è capo di un regime e, come tale, alla libertà di espressione non ci crede, non ci ha mai creduto e, forse, mai ci crederà. Potersi esprimere, poter dare voce ai propri pensieri o alle idee di minoranze considerate marginali (non solo di quelle politiche ovviamente) è fondamentale. E questo lo pensava anche Giulio Regeni. 28 anni, studente dottorando all’università di Cambridge. In Egitto per approfondire i suoi studi sul ruolo dei sindacati da settembre 2015, abitava in un appartamento del Cairo. Ed ora è morto. Ritrovato lo scorso 3 febbraio in un fosso, abbandonato dai suoi assassini oppure dagli intermediari o ancora da semplici complici: tutto tace dagli “amici” egiziani. Anzi. Ci sono state, nel corso del mese appena passato, diverse finte ipotesi sulla morte di Regeni. L’incidente in auto, il festino gay finito male, una rapina, i Fratelli musulmani e, come ultima ipotesi, la vendetta personale. Queste sarebbero le cause o i mandanti che hanno portato alla morte Giulio Regeni: tutte poi smentite. Un calvario che sembra non avere un esito, un punto. Un’agonia che continua imperturbata senza portare alla “verità”. Verità che tarda ad arrivare. Anche nei giorni scorsi, le analisi sul corpo di Regeni, conducono le indagini sempre più lontane dalla finte verità che continuano ad arrivare dall’Egitto.

La conferma schiacciante, in attesa delle ultime verifiche sui tabulati telefonici, arriva dalla procura di Roma che, come riporta l’Ansa del 28 febbraio, “ha puntualizzato che le indagini riguardano un delitto maturato ed eseguito da professionisti della tortura e delle sevizie. Non, quindi, un fatto di sangue legato a droga (dall’autopsia non è emersa alcuna traccia di sostanze stupefacenti), ad una rapina o ad un fatto passionale. Giulio Regeni conduceva una vita ritirata, era molto legato alla fidanzata e non consumava droga. Inoltre dall’esame del computer di Regeni, e anche dal resto dell’attività istruttoria, non emergono legami di Giulio Regeni con servizi segreti. L’inchiesta, secondo quanto si è appreso, avrebbe inoltre evidenziato che Regeni non aveva avuto contatti con persone equivoche e tantomeno che i dati raccolti nell’ambito delle sue ricerche siano uscite fuori dall’ambito universitario”. Che in Egitto, come in molti altri paesi, il concetto di verità sia scomodo non è una novità ma non lo è per noi, non lo deve o può essere.

Per l’Italia e per chi crede nella libertà di espressione e di conseguenza di stampa. Certo Regeni aveva pubblicato degli articoli su il manifesto riguardanti la drammatica situazione dei sindacati e la strumentalizzazione del potere di Al-sisi a suo favore ma non per questo sarebbe dovuto morire. E soprattutto mai con torture atroci. Niente giustifica o può giustificare le modalità e le motivazioni dell’uccisione di Regeni. Ma ciò che non è più tollerabile è la mancanza della verità. Quest’ultima fa paura, preoccupa e, in certi regimi, si pensa sia meglio soffocarla. Il caso ha voluto che, proprio in Egitto, a seguito delle pressioni e dell’agitazione per il raggiungimento della verità (come riporta l’articolo/appello a pagina 6 de il manifesto, datato 24 febbraio 2016) “le autorità egiziane hanno deciso di chiudere l’importante Centro El Nadim per la Riabilitazione delle Vittime di Violenza e Tortura, una fonte di informazione chiave per i casi di tortura e morte in strutture detentive e sull’impunità per questi crimini”. E così, per i sonni tranquilli di Al-sisi & C, viene o verrà eliminata un’altra sorgente (una delle poche) di informazioni utili a comprendere, capire o perlomeno prendere atto.

Prendere atto che i diritti umani, non solo in Egitto, con queste pratiche repressive vengono violati o, meglio, violentati. Della stessa opinione è anche Amnesty International che si è così espressa, attraverso le parole del segretario Salil Shetty, riguardo alla situazione del 2015: “è stato un anno nero per i diritti umani nel mondo che sono in pericolo perché considerati con profondo disprezzo da molti Governi del mondo”. E il 2016 sarà peggio se la verità sulla morte di Regeni non verrà ufficialmente dichiarata. Si spera che l’hastag #VeritàperGiulio non diventi un altro polverone mediatico utile solo a far vendere copie, o click, ai giornali e visibilità ai politici. Questo episodio non deve diventare un ricordo, magari sbiadito, di parole non dette e verità nascoste come le urla dei sindacati a cui Regeni voleva dare volume.

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