Riflessioni intorno a Pitzalis M., Porcu M., De Feo A., Giambona F., Innovare a scuola. Insegnanti, studenti e tecnologie digitali, Il Mulino, Bologna 2016

Raramente accade che percorsi di ricerca sostanzialmente indipendenti arrivino a conclusioni in cui forte è la sensazione di consonanza. La lettura del lavoro di Pitzalis, Porcu, De Feo e Giambona restituisce proprio questo senso di comunità in un ambito di studi, quello del ruolo della tecnologia nei contesti scolastici, in cui ogni opzione critica sembra pericolosamente destinata alla marginalità scientifica. Invece gli autori hanno qui il coraggio di impostare un documentato esame delle potenzialità e dei limiti della tecnologia a scuola, opportunamente declinato su due livelli. A uno sguardo di tipo macro, infatti, non sfugge la neanche troppo sottile retorica del nuovo che dà forma ai programmi internazionali per l’innovazione didattica. Un repertorio documentale poderoso, analizzato in termini di dispositivi discorsivi e cognitivi che si pongono come alfieri di una rivoluzione digitale pensata come necessaria. Ma è al livello micro, nella quotidianità del fare scuola, che il lavoro di verifica empirica delle promesse della tecnologia riesce a problematizzare il portato rivoluzionario dei media digitali.
In termini generali, infatti, occorre fare chiarezza rispetto ad alcuni presunti automatismi nella relazione tra competenze digitali e capitale culturale dei soggetti. In prima battuta, come l’ampia riflessione sui divari digitali ha da tempo messo in luce (per un’analisi del rapporto tra divari digitali, nuove definizioni di literacy e rapporto tra giovani ed adulti cfr. Morcellini M., Mulargia S. (2012) «Giovani, tecnologia e formazione. Processi di autosocializzazione e segregazione del senso», in In-Formazione. Studi e ricerche su giovani, media e formazione, Anno V – numero 9, 2012. ) , il capitale culturale è distribuito in maniera diseguale nei giovani in formazione ed è spesso il riflesso di una più ampia condizione di benessere familiare. Il differente approccio alla scuola non è però neanche il meccanico riflesso del benessere economico delle famiglie. Gli autori, infatti, individuano 4 classi di studenti rispetto allo status socio-economico e alla propensione allo studio. Se ai due estremi della classificazione ci sono da una parte gli studenti che posseggono un elevato status socio-economico combinato con altrettanto elevato capitale culturale (il tipo A) e dall’altra chi possiede valori bassi per entrambe gli indicatori (tipo C), le altre due categorie problematizzano ulteriormente il quadro. Il gruppo D, infatti, classifica quegli studenti in cui prevale (in maniera quasi esclusiva) il capitale economico e il gruppo B quelli con uno status socio-economico medio-basso che però condividono con il gruppo A un atteggiamento positivo e proattivo nei confronti dell’ambiente scolastico. Anche per questo, dunque, sembra quanto mai opportuna la considerazione che il capitale digitale è legato ad altre dimensioni del capitale culturale e che staccato da esse non produce necessariamente un maggior impegno e coinvolgimento scolastico (p. 28). Risulta quindi centrale non solo il capitale digitale ma un atteggiamento proattivo verso scuola e cultura. È una postura complessiva nei confronti delle istituzioni del mondo degli adulti, l’idea che la tradizione culturale (e le agenzie deputate alla sua trasmissione e valorizzazione) abbia ancora qualcosa da offrire ai ragazzi. Questa consapevolezza può dischiudere positivamente le potenzialità della digitalizzazione. Ma questa proattività non viene meccanicamente trasmessa dai dispositivi tecnologici e si mostra anzi in maniera decisamente disuguale tra gli studenti coinvolti nella ricerca

Studenti e docenti: cronache dal fronte del disagio generazionale
La scuola italiana è da tempo scenario ideale per la manifestazione di un disagio giovanile diffuso, in parte acuito dalla crisi economica e sociale degli ultimi anni che ha di fatto eroso sensibilmente la reputazione delle istituzioni della formazione. L’investimento nella formazione, infatti, non basta più a garantire un aumento delle chance di successo professionale ed esistenziale. A ciò si aggiungono i tradizionali ritardi nell’implementazione di un ambiente didattico accogliente e decoroso: l’idea che, comunque vada, la scuola riesca a farcela da sola, senza bisogno di investimenti infrastrutturali di rilievo. Proprio in virtù di una condizione così precaria nella qualità dei rapporti tra giovani e adulti è opportuno problematizzare criticamente l’ingresso della tecnologia a scuola. Come studiosi dei processi di socializzazione, non si tratta di chiudere le porte al cambiamento, ma neanche di abdicare al nostro ruolo di ricercatori, orientati a una qualche forma di verifica empirica delle promesse che fanno da contorno ai programmi di digitalizzazione.
Come ben messo in evidenza, infatti, anche la sola presenza in classe della LIM impone una riconfigurazione socio-spaziale della stessa (p. 29). Cambiano gerarchie e ruoli, si costruiscono nuove rendite di posizione e i vecchi equilibri di forza devono essere rinegoziati. È una discontinuità che investe sia il corpo insegnate (differenziando i docenti rispetto all’uso dei dispositivi) sia il rapporto con gli alunni, come il ricorso a una strategia di ricerca di impianto etnografico ha il pregio di mettere in luce. Osserviamo così il dettaglio delle tante micro-interazioni conflittuali che fanno da contorno ai processi di inclusione dei nuovi dispostivi tecnologici nella quotidianità della scuola. In termini più generali, la LIM può rappresentare un potenziale elemento di sovversione delle tradizionali asimmetrie incorporate nella materialità stessa dell’aula scolastica anche se, ancora una volta, la posta in gioco è il conflitto generazionale tra studenti e professori (p. 57).
L’accesso alla rete, istituzionalizzato dalla presenza di una lavagna elettronica connessa, funziona come fonte di delegittimazione dell’insegnante proprio là dove è già più debole la forza del collante tra le generazioni e il patto simbolico che dovrebbe governare il rapporto tra docenti e discenti è già stato vittima di un contesto sociale frammentato, in difficoltà a dare risposte solidaristiche al tempo dell’avanzata trionfante dell’individualismo. In questo contesto alcuni frammenti discorsivi recuperati nell’ascolto dei ragazzi illuminano chiaramente la scena, come quando i ragazzi alludono maliziosamente all’idea che Google ne sa di più del professore (p. 65)
Nel confronto tra liceo e istituto professionale (come sottolineato nel volume, la scelta del tipo di istituto scolastico risente ancora in maniera decisiva del contesto familiare e influisce sulle disuguaglianze educative) la condizione di estraneità ai valori e alle pratiche dell’istituzione scolastica (p. 91) è drammatico. Perché riproduce un solco divisorio di natura economico-sociale che non può essere certo colmato dalla LIM. Anzi: la conflittualità insita nei processi di negoziazione del senso di un dispositivo tecnologico (negoziazione che fatalmente si inserisce nel più ampio campo di battaglia tra docenti e discenti) acuisce il divario tra gli studenti del liceo (più capaci di costruire forme di alleanza con il mondo degli adulti) e quelli degli istituti tecnici portatori di un disagio sociale più ampio che le rigidità nell’uso della LIM non fanno che acuire.
La ricerca empirica consente di osservare da vicino le conseguenze di un modello di innovazione calata dall’alto che è, spiace ammetterlo, la norma e non l’eccezione. I ritardi infrastrutturali italiani, che pure ci sono e che però non coinvolgono esclusivamente la digitalizzazione, diventano spesso la motivazione per giustificare un’adozione tecnologica a tappe forzate in cui la somministrazione della giusta dose di tecnologia diventa l’unica cura per i mali della scuola italiana. Eppure la LIM si inserisce a fatica nelle dinamiche della classe e richiede una mobilitazione straordinaria del capitale sociale degli insegnanti, della loro capacità di fare rete per rendere meno traumatico il processo di inclusione delle tecnologie. Un lavoro oscuro, lasciato al volontarismo di una classe professionale che è stata spesso lasciata sola alla frontiera del disagio giovanile. Detto in termini bruschi: occorrerebbe la messa a sistema (e anche il riconoscimento formale!) del famoso collega esperto che funge da mediatore e facilitatore dei processi di appropriazione tecnologica.

Innovare a scuola copertina

Innovare a scuola copertina

La problematizzazione del rapporto tra tecnologia e innovazione didattica passa necessariamente per l’analisi del significato simbolico degli strumenti digitali. Come opportunamente messo in luce, infatti, le tecnologie didattiche incorporano nuove rappresentazioni della conoscenza e dei processi di apprendimento (p. 50). Ogni nuovo gadget tecnologico, infatti, lungi dall’essere un semplice strumento che può essere usato secondo la volontà degli utilizzatori, possiede un portato ideologico quasi inscritto nel suo codice genetico. Una nuova grammatica e pragmatica pedagogica (p. 50) che deve essere osservata e messa in discussione. L’adozione di un atteggiamento ingenuo, in virtù del quale l’adozione degli strumenti tecnologici risulta essere un semplice aiuto rispetto a un processo di trasmissione delle conoscenze che rimane sostanzialmente uguale a se stesso non regge alla prova empirica dei fatti. Da tale considerazione deriva un ulteriore conseguenza, di segno diametralmente opposto: non solo non si possono usare strumenti nuovi per pratica una pedagogia sostanzialmente tradizionale, ma non si può neanche sperare che una nuova fisionomia del rapporto docente-discente derivi magicamente dall’uso dei dispositivi digitali. Se è vero, infatti, che “La psicologia sociocostruttivista e l’enfasi sui nuovi «ambienti di apprendimento» costituiscono il centro del discorso dominante contemporaneo sulla scuola” (p. 101), è altresì degna di nota la considerazione che la portata rivoluzionaria attribuita alle tecnologie didattiche si confronta con le disposizioni (habitus) professionali degli insegnanti (p. 51). È in questo contrasto tra le insicurezze degli insegnanti e la voglia di abbracciare il cambiamento per la paura di essere etichettati come conservatori che riposa gran parte dei cortocircuiti tra tecnologia e (vera) innovazione didattica.
In conclusione del lavoro, attraverso l’analisi di dati secondari, si compone un quadro d’insieme dello stato di salute dell’utilizzo dei dispositivi digitali per l’innovazione didattica. Emerge un quadro di significativo ritardo del nostro paese, con la classica fotografia di una innovazione che si muove a macchia di leopardo, quando servirebbe, invece, una regia più sistematica e di ampio respiro. Malgrado uno dei nuclei problematici più evidenti rimane il ritardo infrastrutturale italiano, è quanto mai significativo che le condizioni dell’innovazione didattica digitale siano decisamente votate a valorizzare ancora una volta il ruolo degli insegnanti. Vengono infatti messe in luce alcune dimensioni che facilitano (o complicano quando assenti o male impostate) il ruolo attivo dei docenti in quanto driver del cambiamento socio-tecnologico della scuola: l’aggiornamento professionale, l’impegno istituzionale e/o organizzativo, l’uso personale delle tecnologie, l’appartenenza alla comunità professionale, la percezione del clima scolastico, l’innovazione nella didattica, l’uso delle TIC nella didattica, l’intensità dell’uso della LIM in classe, il tempo impiegato dai docenti per il digitale e la percezione dell’utilità delle TIC nella didattica. Un bel mix di strumenti tecnologici ed esseri umani che ribadisce ancora una volta la necessità di diffidare dei facili entusiasmi tecno-ottimisti.

La recensione è frutto del lavoro congiunto di Mario Morcellini e Simone Mulargia

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