La scelta di intitolare il nuovo magazine del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale “occhieggiando” all’ultimo fenomeno che scuote il mondo del web e degli ambienti social in particolare non è una scelta casuale. L’applicazione Periscope, consentendo a tutti di accendere una diretta su un frammento della loro vita e di metterlo in condivisione con i propri contatti, riapre ancora una volta l’eterni dibattito tra apocalittici e integrati, tra quanti gridano alla fine della privacy e quanti acclamano questo nuovo acceleratore di socialità.
Si tratta di un’ennesima superficie in cui si può specchiare, con tutte le sue imperfezioni e le sue innovazioni, la storia dei media nel nostro paese, che da sempre procede a strattoni, tra le discese ardite e le risalite. È quasi inevitabile che, studiando questo mondo, anche i gruppi di ricerca e i singoli studiosi che compongono l’attuale Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza abbiano oscillato tra l’emozione per le promesse che la comunicazione ha regalato agli uomini e il rancore per aver visto molte di esse tradite. Non si tratta qui solo di singoli casi, un’applicazione il cui nome appare con tanta frequenza nei discorsi dei frequentatori e degli analisti della Rete in questo momento tra sei mesi potrà essere dimenticata. Si tratta, piuttosto, di quella fiducia nella comunicazione come driver del mutamento sociale ed alimentatore dei rapporti tra gli individui che ha sostanzialmente “tenuto” fino a pochi anni fa. Fino a quando non è cominciato a divenire evidente che, nonostante i consumi comunicativi complessivamente subiscano una flessione inferiore rispetto ad altri comparti dell’immateriale sotto i colpi della crisi economica, gli uomini e le donne del nostro paese, pur così ricchi di comunicazione, non mostravano i segni che un tale capitale dovrebbe riverberare sul piano sociale.
Gli italiani sono rapidamente divenuti un popolo chiuso verso l’Altro, laddove fino ai primi anni Duemila il nostro poteva essere considerato un paese accogliente nell’ambito dei flussi migratori. La fiducia nella politica e nelle istituzioni è in continuo calo, nonostante le élite di governo facciano ogni sforzo possibile per “stare al passo” con gli strumenti e i linguaggi comunicativi della contemporaneità. La scuola perde giorno dopo giorno importanza come luogo della socializzazione, nonostante i tentativi di rendere l’apprendimento sempre più mirato e mediato dalle tecnologie. Il giornalismo perde credibilità nella sua funzione di mediazione, nonostante le promesse di ridefinizione paritaria di questo termine che appunto la Rete aveva ostentato.
Nel panorama attuale, quel che occorre è un approccio critico; quel che in molte occasioni pubbliche, e su due diverse riviste, una “interna” (Comunicazionepuntodoc, la rivista della nostra Scuola di Dottorato) e una “esterna” (Paradoxa, la rivista dell’Istituto Nova Spes) ho chiamato una sociologia critica della comunicazione.
Chiedere agli articoli, agli approfondimenti, ai blog che compariranno su MediaPeriscope di adempiere a questa funzione sarebbe al tempo stesso eccessivo dal punto di vista scientifico e restrittivo dal punto di vista dell’apertura che questo magazine si propone verso l’utenza non accademica. Ma ripartire oggi con una nuova tappa di un viaggio iniziato in piena euforia verso le pratiche del consumo e della comunicazione (nel 2004, con MediaZone) e che ha trovato un prima importante aggiustamento di rotta sul crinale tra l’euforia e la crisi (nel 2009, con ComunicLab), significa avere nel nostro zaino una bussola sufficientemente accurata per attraversare i mari agitati di tutto ciò che è comunicazione.