La partita di calcio Napoli-Inter, giocata martedì 19 gennaio 2016 e valida per i quarti di finale della Coppa Italia, con ogni probabilità è destinata a essere ricordata negli anni. La ragione di ciò, tuttavia, prescinde totalmente dal suo svolgimento e dal suo risultato, e va ricercata senz’altro in ciò che è avvenuto a pochi minuti dalla fine della gara e, soprattutto, nei minuti successivi alla sua conclusione. Riassumendo in poche parole: di fronte ai microfoni della RAI, l’allenatore dell’Inter Roberto Mancini ha denunciato di essere stato insultato dal suo omologo napoletano Maurizio Sarri, che allo scopo di offenderlo gli ha dato dell’omosessuale (utilizzando due appellativi spregiativi, che evito volentieri di ripetere in questa sede). Mancini ha accusato Sarri di essere “razzista”, di aver avuto un comportamento vergognoso, e ha sottolineato che comportamenti come il suo non devono avere cittadinanza nel mondo del calcio. Successivamente, lo stesso Sarri è intervenuto e ha chiesto pubblicamente scusa al suo collega e a chiunque si fosse sentito offeso dalle sue parole, ma ha negato che il suo comportamento avesse natura omofobica e lo ha attribuito principalmente a un momento di nervosismo: parafrasando le sue parole, ha rivolto a Mancini il primo insulto che gli è venuto in mente.

Le reazioni a questo vigoroso botta e risposta tra i due allenatori sono state numerose, sia tra gli addetti ai lavori che nel dibattito giornalistico, nonché nel dibattito pubblico soprattutto attraverso gli strumenti del web e del web 2.0. Le opinioni che sono emerse possono essere ricondotte, a grandi linee, a due principali posizioni, che ricalcano quanto espresso dai due allenatori di fronte alle telecamere.

Com’è ovvio, nessuno ha legittimato le parole di Sarri nel merito: ogni insulto è strutturalmente deprecabile, tanto più se in un contesto sportivo e in special modo quando ha contenuti discriminatori. Tuttavia, da un lato in molti hanno considerato il comportamento di Sarri come pienamente omofobico, ritenendolo particolarmente grave, oltretutto, perché proveniente da chi riveste il ruolo di allenatore e, di conseguenza, sia per età che per formazione è supposto essere la parte “saggia” del mondo del calcio. Da più parti è stato evocato il riferimento ad altre polemiche su dichiarazioni considerate discriminatorie, in particolare quelle effettuate dall’attuale Presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio Carlo Tavecchio. Più in generale, l’atteggiamento di Sarri è stato inserito in un contesto più ampio di storture nel mondo del calcio italiano (che, per parafrasare le parole dello stesso Mancini, vanno debellate se esso vuole essere considerato al pari di quelli più civili, in primis quello inglese) e, per estensione, della società italiana.

Dall’altro lato, al contrario, si è sottolineato che determinati comportamenti, pur non certo specchiati, hanno sempre fatto parte del mondo del calcio a ogni latitudine, e che nella cosiddetta “trance agonistica” certe cose possono avvenire ed essere tollerate, posto che “rimangano sul campo”. Con ciò si sottolinea in particolare la discriminante legata alla contingenza: in altre parole, l’idea è che certi “scambi di cortesie” facciano parte del gioco (a cominciare dall’episodio forse più celebre, ovvero lo scambio di offese tra Marco Materazzi e Zinedine Zidane nel corso della finale dei Campionati del Mondo del 2006, che condusse alla reazione violenta e conseguente espulsione del francese), e non possono essere considerati con lo stesso metro di giudizio che si applicherebbe se essi avvenissero a mente fredda. Il comportamento di Sarri è quindi certo deprecabile, ma non “al punto” di essere considerato come razzismo, discriminazione o omofobia.

L’obiettivo di questa breve riflessione non è certo quello di prendere posizione riguardo a questa polemica. Tuttavia, il dibattito che la anima mette in luce un aspetto a mio avviso interessante da sottolineare, proprio riguardo all’immagine dell’attuale allenatore del Napoli Maurizio Sarri.

Al fine di spiegarmi, è necessario spendere innanzi tutto alcune parole sulla sua carriera. Sarri comincia ad allenare all’età di 31 anni, nel 1990, e per oltre 10 anni è chiamato a guidare società del panorama dilettantistico toscano. In seguito all’affermazione con la Sansovino (squadra della città di Monte San Savino, in provincia di Arezzo, con la quale vince la Coppa Italia Dilettanti), compie il salto nelle categorie professionistiche nel 2005 (con il Pescara in Serie B), ottenendo risultati altalenanti fino al 2012, quando approda sulla panchina dell’Empoli in Serie B. Dopo aver sfiorato la promozione in Serie A già al primo tentativo, la ottiene nel 2014, e nell’annata 2014-2015 l’Empoli raggiunge la proverbiale “salvezza tranquilla”, proponendo un gioco piacevole e offensivo, atipico per una squadra appartenente al novero delle cosiddette “piccole”. Tale affermazione gli vale la chiamata di una “grande”, il Napoli, che nell’annata in corso è chiamata a competere per lo Scudetto e per l’Europa League (e, nel momento in cui scriviamo, si trova in testa alla classifica di Serie A dopo aver conseguito il titolo simbolico di “campione d’inverno”).

L’arrivo di Sarri, nel corso dell’estate del 2015, ha suscitato un notevole clamore, per diversi motivi. Oltre a quelli di carattere tecnico e tattico, che ovviamente esulano dalle finalità di questa riflessione, è interessante sottolineare che la scelta del Napoli è stata spesso letta (anche dagli stessi vertici societari del club partenopeo) come un’inversione di tendenza all’interno delle società di calcio italiane anche dal punto di vista della politica societaria e dell’immagine. Sarri, infatti, venne visto come una sorta di risposta al modo in cui si era evoluto il nostro campionato, una “nouvelle vague” delle panchine che si afferma definitivamente a partire dagli anni 2000: molte società, e in particolare la quasi totalità delle “grandi”, avevano infatti spesso prediletto allenatori stranieri già affermati e quindi costosi (da José Mourinho all’Inter allo stesso predecessore di Sarri al Napoli, Rafa Benitez), allenatori stranieri dal palmarès non particolarmente corposo o significativo (dalla Lazio di Vladimir Petkovic alla Roma di Rudi Garcia e Luis Enrique, fino all’attuale Fiorentina di Paulo Sousa) oppure allenatori senza alcuna esperienza ad alti livelli, ma legati ai colori societari (il Milan di Leonardo, Clarence Seedorf e Filippo Inzaghi o l’Inter di Andrea Stramaccioni e dello stesso Leonardo).

Tali scelte venivano criticate (in maniera più o meno vigorosa a seconda, com’è ovvio, dei risultati del momento…) perché venivano considerate come dettate da motivi di immagine più che da ragioni tecniche. Chiamare il “grande nome” dall’estero prospettava un salto di qualità (suggellato anche dall’importante esborso economico); scommettere su uno straniero allargava al livello dell’allenatore la storica “esterofilia” calcistica degli italiani; puntare su un nome legato alla società fidelizzava il cosiddetto “ambiente” e, forse soprattutto, evocava la parabola di una delle squadre più vincenti degli ultimi anni, il Barcellona di Josep Guardiola.

In tutti questi casi, comunque, veniva fatta una scelta che divergeva in maniera significativa dallo schema “classico” delle società di calcio italiane, che storicamente prediligono allenatori italiani (o comunque formati calcisticamente in Italia), sovente ex calciatori, il cui passaggio in panchina avveniva però gradualmente, attraverso esperienze in società minori o ruoli di vice. In altre parole, allenatori che avevano fatto la gavetta. L’arrivo di un allenatore come Maurizio Sarri sulla panchina di una squadra chiamata a competere per lo Scudetto è stato letto come una sorta di “rivincita” della gavetta, dello studio tattico, dell’esperienza maturata sul campo, nonché in un certo qual modo dell'”italianità” applicata alle panchine di calcio. Questo, tuttavia, andava oltre il mero aspetto tecnico, calcistico: nel suo “opporsi” in qualche modo alla tendenza cui abbiamo fatto cenno poc’anzi, Sarri è in qualche modo assurto a simbolo di una ritrovata attenzione per la sostanza rispetto all’apparenza.

Tra gli aspetti fondamentali che caratterizzavano la “nouvelle vague”, infatti, vi era anche una forte componente personale e soprattutto comunicativa: gli allenatori erano riconoscibili per lo stile e il carisma anche fuori dal campo, e in particolare di fronte a microfoni e telecamere; introducevano concetti e atteggiamenti innovativi e atipici, quasi esotici, anche nel linguaggio certamente ricco e multiforme del calcio; risultavano delle vere e proprie star, al pari (se non più) dei calciatori che allenavano. Come conseguenza, apprezzamenti e critiche di stampo tecnico e tattico erano sempre più spesso affiancati, o anche soppiantati, da quelli legati allo stile, alla personalità, al carisma e alla comunicazione, a loro volta interpretati in varie maniere sulla capacità di impattare sui risultati della squadra.

Questa tendenza si ampliava inoltre anche a quegli allenatori che, pur corrispondendo nella formazione allo schema classico italiano, assumevano i connotati della “nouvelle vague” sia in prima persona che nel modo in cui erano valutati da stampa e pubblico: solo per fare due esempi, Massimiliano Allegri del Milan e poi della Juventus, e forse soprattutto l’attuale CT della Nazionale ed ex guida della Juventus Antonio Conte. In altre parole, l’allenatore era ri-diventato un personaggio, ma a differenza di quanto già avvenuto in passato (basti pensare a Helenio Herrera, Nils Liedholm o Giovanni Trapattoni), questo elemento appariva essere strutturale, quasi ineludibile, nella scelta delle società e in particolare delle cosiddette “grandi”, che più delle “piccole” necessitano di attrarre grandi pubblici, possibilmente anche fuori dal loro Paese.

Maurizio Sarri, al contrario, conquista l’attenzione e la simpatia di pubblico e stampa per i motivi opposti. Di carattere burbero e apparentemente scontroso, si mostra particolarmente schietto e diretto nelle sue dichiarazioni (come impone, secondo la vulgata, il suo sangue toscano), si focalizza esclusivamente sul campo da calcio e non sembra curarsi del “contorno” (nel gergo sportivo essere un “uomo di campo” ha proprio questa accezione). Il principale simbolo di questa tendenza probabilmente è rappresentato dalla risonanza che ha avuto la sua scelta di andare in panchina durante le partite ufficiali indossando la tuta: ancora una volta, una scelta del tutto normale (soprattutto fino a 10-15 anni fa) per un allenatore appartenente alla tradizione italiana, ma che segna al contrario una radicale discontinuità con quella che abbiamo chiamato “nouvelle vague”, che anzi mostra una specifica attenzione alla forma, e con essa al look (e in questo uno dei principali esempi è probabilmente lo stesso Roberto Mancini). Tale contrapposizione è sottolineata molto spesso, soprattutto nella copertura giornalistica del tecnico toscano: citiamo il Corriere e il Foglio, due soli esempi dove il binomio Sarri-tuta è addirittura nel titolo degli articoli, ma troppi altri casi potremmo citare (una banale ricerca Google dei termini Sarri+tuta dà decine di migliaia di risultati!).

Nel 2012, all’interno del volume dedicato alla memoria di Massimo Baldini, ho proposto una riflessione riguardo a una tendenza, a mio avviso particolarmente significativa in seno ai media e in particolare alla televisione, che ho ribattezzato spocchia mediale. Notavo come in diversi contesti mediatici e in determinati e specifici personaggi (primo tra tutti Gregory House, protagonista della serie statunitense House M.D.), si fosse ormai affermata una forma di linguaggio riconducibile a valori tendenzialmente negativi, come la presunzione, il cinismo e l’eccessiva schiettezza: in una parola, per l’appunto, la spocchia. Sottolineavo come tale linguaggio si ponesse in contrasto con la percezione della narrativa televisiva classica, considerata come troppo compiacente, stereotipica e politicamente corretta. Il successo della spocchia mediale, questa era la conclusione della mia riflessione, bagnava le sue radici nella storica, profonda e strutturale critica all’intero complesso (potremmo dire al concetto stesso) della comunicazione: se quest’ultima, infatti, interviene sulla forma per imbellettare, edulcorare, banalizzare o addirittura mistificare il contenuto (come viene sostenuto fin dai tempi delle teorie ipodermiche), allora chi rifiuta i codici standard della comunicazione non può che avere l’obiettivo opposto, vale a dire la sincerità, la concretezza, la profondità e la verità.

Nel caso di Maurizio Sarri, pur con alcuni doverosi distinguo, stiamo assistendo a mio avviso a un fenomeno molto simile. Chi percepisce l’affermazione del tecnico toscano come una “boccata d’aria fresca” all’interno del panorama calcistico italiano, probabilmente lo fa in contrapposizione con i valori trasmessi dalla “nouvelle vague”: un sano e opportuno richiamo alla concretezza, alla sincerità, alla tradizione italiana verace che, pur con i suoi difetti, deve essere difesa da un modello di allenatore più concentrato sulla comunicazione e sul “contorno” rispetto a ciò che avviene sul campo. Sarri viene considerato strutturalmente come un “vero”, e come tale apprezzato rispetto a personaggi percepiti come maggiormente sofisticati e artefatti.

Una posizione e una predilezione assolutamente legittime, ma che vacillano terribilmente di fronte a un episodio come quello della lite tra Sarri e Mancini. Comunque lo si valuti nel merito, infatti, dal punto di vista formale quanto avvenuto allo Stadio San Paolo di Napoli va oltre l’affermazione di concretezza e sincerità e travalica nella discriminazione. Alla luce di quanto detto, ovvero alla luce della particolare immagine che viene associata a Maurizio Sarri, l’episodio crea un significativo paradosso, o meglio un cortocircuito, quale che sia la sua interpretazione.

Infatti, nel caso in cui si ritenga l’atteggiamento di Sarri come ispirato da un reale sentimento omofobico, di fatto l’allenatore toscano risulterebbe essere apprezzato perché “vero”, ma successivamente condannato per via di un suo modo di pensare altrettanto vero. Se si crede alla spiegazione di Sarri, al contrario, si pensa che l’oggettivo passaggio dall’insulto alla discriminazione sia stato fatto, per così dire, in “buona fede”, ovvero in preda a un momento di nervosismo e senza rispecchiare un effettivo sentimento omofobico. Un momento di nervosismo che non dovrebbe capitare, men che meno all’allenatore di una “grande”, ma che appartiene in qualche modo alla strutturale e conclamata veracità del tecnico toscano.

In altre parole, in entrambi i casi Sarri avrebbe esagerato con il suo essere “vero”. Nel caso di un suo reale sentimento omofobico la cosa appare quantomeno sensata: se si parla di realtà, è ovviamente legittimo pensare che ci sia un limite da non oltrepassare, ovvero, in parole povere, apprezzare l’essere schietto e diretto, ma non tollerare il passaggio alla discriminazione. Al contrario, nel caso in cui le sue offese vengano contestualizzate in un momento di nervosismo di una persona verace e “vera”, di fatto si riconduce a un errore che, in qualche modo, “fa parte del personaggio”.

Ma Sarri, quindi, è una persona vera o un personaggio? Nel breve saggio in cui parlavo di “spocchia mediale”, tra gli esempi a mio avviso più significativi avevo inserito dei personaggi di fiction (come Perry Cox della serie “Scrubs”, o il già citato Gregory House) ma anche dei protagonisti “in prima persona” sui media, come lo chef Gordon Ramsay, il cantante Morgan o l’allenatore José Mourinho; proprio per questo, avevo ritenuto opportuno specificare che nella mia riflessione non facevo riferimento alle persone ma all’immagine che di loro, volenti o nolenti, veniva restituita attraverso i media e apprezzata dal pubblico. In altre parole, non avevo certo modo e intenzione di sostenere che Gordon Ramsay fosse una persona intrinsecamente spocchiosa, ma ritenevo interessante che così apparisse (e/o intendesse apparire) nei suoi show.

Nel caso di Maurizio Sarri (o meglio – sempre per restare nel solco della riflessione sulla spocchia mediale – del modo in cui Maurizio Sarri viene veicolato attraverso i media e assurge quindi a “icona della gavetta”) emerge quindi, come detto, un significativo cortocircuito. Da molte reazioni si può dedurre che il suo comportamento sia stato ricondotto a una specifica (o meglio, a un difetto) del suo personaggio: il suo personaggio consiste nell’essere “quello vero”, e a “uno vero” certi scivoloni possono capitare, come a chiunque in una situazione di particolare stress. In altre parole, il fatto di essere “vero” appartiene in qualche modo all’essere un personaggio, ovvero qualcosa che punta strutturalmente a essere verosimile, ma che altrettanto strutturalmente risulta artefatto e quindi difficilmente considerabile come “vero”. Ricondurre il comportamento di Sarri al suo essere stereotipicamente “vero” appare essere in qualche modo una certificazione del fatto che egli vero non è, o, per essere più precisi, che il suo essere “vero” al di sopra di ogni altro aspetto appare essere come una sorta di etichetta che, volente o nolente, lo definisce.

Condividi dove vuoi: